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C.1.1.15

il Lavoro Spirituale
Il Rinnovamento dell'uomo

Incontro n° 10 del 27 maggio 2009
Conversazione di Dario Sacchi, Docente di Filosofia Teoretica all'Università Cattolica, in dialogo con Vittorio Mazzucconi, sul tema:
La filosofia nella storia


Indice IL LAVORO SPIRITUALE

 

Nel dibattito sono intervenuti anche Roberto Provenzano, Gerardo Palmieri, Patrizia Sophie Graja, Francesco Rampichini.

Vittorio Mazzucconi

Ringraziamo Dario Sacchi, professore di filosofia teoretica alla Cattolica, che ha gentilmente accettato l'invito a condividere con  noi questa serata. Molti di voi hanno già seguito gli altri incontri che fanno parte del nostro Seminario, per il cui titolo ho usato una parola molto pericolosa, la parola “spirituale”, secondo me la parola più bella, più importante che si possa usare, ma che viene capita molto male e confusa con qualcosa di confessionale e fa così inalberare chi sostiene che tutto sia da riportare alla realtà, al determinismo ecc. mentre invece io trovo che spirituale sia semplicemente l'anima delle cose. Peggio che peggio direte, parlare di anima è un discorso ancora più complicato. L'altro giorno ho incontrato poi uno che mi ha detto: ma pensa che ho scoperto che certi credono che non solo ci sia l'anima ma anche lo spirito! Mi sono reso conto che quello che a noi, in un certo filone di appartenenza culturale, se non religiosa, sembra l'evidenza stessa, per altri invece fa trasecolare, come se si parlasse della luna. Comunque, questo intento si è duramente cimentato con varie tematiche, fra cui quella della città, che normalmente è dominio degli urbanisti, degli economisti, dei sociologi, dell'attività economica, del caos, di tutto fuorché di un intento spirituale, anche se, guardando le antiche città, balza agli occhi che la loro bellezza, la loro verità sono appunto un grande dono spirituale. Basta pensare alle cattedrali, alla storia, a questo grande libro che le città sono e in cui possiamo leggere e vivere la nostra civiltà. Se poi si parla di architettura, peggio che peggio. L'architettura è preda di personaggi fin troppo conosciuti, dei grossi affaristi, più o meno bravi ma più che altro interessati agli aspetti concreti, economici e politici dell'architettura. Se poi si passa alla pittura, l'arte contemporanea dà spettacolo di una grande fatuità, che poi si centra molto su questo strano concetto del contemporaneo, che assurge quasi a categoria e, secondo me, esprime proprio la mancanza del senso di una prospettiva, di un futuro....e, nel contemporaneo, come insegna la Biennale che apre fra qualche giorno, furoreggiano le proposte più strampalate e le installazioni dilaganti, facendone la babele di infinite velleità e provocazioni.
Ma adesso finalmente approdiamo alla filosofia. Diciamo che c'è sempre stato un filone di riflessione filosofica in tutti i nostri incontri,  però con riflessioni filosofiche come può farle qualcuno che non è filosofo. Stasera ci cimentiamo invece in un dialogo con un vero filosofo, una cosa da prendere col dovuto rispetto e con qualche precauzione. Mentre infatti lo spirito degli altri incontri era principalmente quello di un incontro ad armi pari con il Relatore, questa volta mi è sembrato doveroso di lasciargli una netta preminenza, ma anche tutta la responsabilità, sia pure con il dialogo che seguirà al suo intervento. Vediamo quindi come Dario Sacchi imposta il discorso.

Dario Sacchi

Si, ha detto bene l'Architetto Mazzucconi, un discorso filosofico bene o male è sempre sullo sfondo di ogni altro discorso, siamo il più delle volte filosofi senza saperlo, comunque lo siamo perché, volenti o nolenti, un qualche conferimento di significato alla nostra esistenza nel suo insieme sentiamo il bisogno di farlo....si tratta di farlo venire allo scoperto, questo conferimento di senso, di farne oggetto di esplicita considerazione, di tematizzarlo, di evitare che continui a vivere un po' di contrabbando nella nostra esistenza, e cercare quindi di sottoporlo a un giudizio esplicito. Siccome stasera si deve considerare la filosofia in una dimensione storica, io cercherò di sottoporvi quello che apparentemente potrebbe sembrare uno schemino in termini riduttivi ma che, a mio avviso, può aiutare a portare ordine in quella che può facilmente sembrare la babele della filosofia occidentale, se ci limitiamo appunto per comodità alla filosofia dalla Grecia ad oggi. Ecco, questa riflessione che vi sottopongo, con un tono per quanto possibile familiare, come una chiacchierata, cercando di impiegare solo quel tanto che sarà strettamente indispensabile di lessico filosofico, ho cercato di formularla all’interno di quello che è l'orizzonte più vasto delle riflessioni che giustamente Vittorio vuole  si svolgano intorno al tema della città, della polis nella sua dimensione più ampia, della convivenza e di tutto quello che questa comporta.  Io direi che la vicenda storica della filosofia occidentale si può dividere in tre grandi fasi, ciascuna delle quali prevede una configurazione determinata a diversi livelli. Per quanto riguarda la prima fase, quella che include antichità e medioevo, è ovvio che a un certo momento vi irrompe il Cristianesimo, come grande fenomeno culturale extra-filosofico ma che non porta un mutamento vero e proprio nel paradigma. Questo si muta radicalmente quando passiamo alla modernità. Ecco quindi, come seconda fase, la filosofia moderna, che implica anche una parte di quella che potremmo chiamare contemporaneità, già nell'800, oltre alla vera contemporaneità che è la nostra, dal '900 in poi. Vediamo di portare un poco d’ordine in questo quadro. Ora, la filosofia dell'antichità e del medioevo presenta alcune caratteristiche di fondo, anzitutto a livello di riflessione gnoseologica e ontologica. Qui la configurazione viene determinata dalla filosofia teoretica che appunto implica la riflessione sulla conoscenza e sulla realtà, mentre il secondo livello riguarda la filosofia pratica, che sul piano fondativo coincide con l’etica, e il terzo livello riguarda la filosofia politica, con un occhio anche a un piano più applicativo perché corrisponde all'ottica che voi volete perseguire nel vostro lavoro sulla città. Vediamo brevemente di illustrare ciascuno di questi tre livelli. Ora, possiamo dire che la filosofia antica e medioevale è quella complessivamente più vicina al cosiddetto realismo del senso comune. Tutto sommato è una filosofia molto valida nei suoi fondamenti, molto solida, molto robusta ma, nonostante questo e forse proprio per questo, è in continuità con l'atteggiamento di quella che potremmo chiamare la coscienza pre-filosofica. Fondamentalmente si pensa che esiste una realtà indipendente dal soggetto che la pensa e  che è interessato a conoscerla: questa realtà oggettiva, ben distinta dal nostro pensiero, dalla nostra mente, dalla nostra coscienza, è però, in quanto tale, conoscibile, è qualcosa di accessibile alle nostre risorse cognitive. Questo è il modo di pensare che caratterizza il filone dominante della tradizione di pensiero più antica; non che non esistano qua e là voci discordanti – la sofistica, lo scetticismo o il relativismo – ma tutto sommato si tratta di correnti minoritarie che non riescono a dare il tono all'insieme. Diremo che i filosofi più rappresentativi di questa fase del pensiero occidentale, che è alta, nobile e fa largo posto alla spiritualità, come è giustamente al centro dei pensieri di Vittorio, si riconoscono tutti in una prospettiva che distingue i due ambiti, soggettività e oggettività, pensiero ed essere, conoscenza e realtà, ma al tempo stesso li pone in una correlazione molto stretta. Il pensiero è quell'ambito, quella dimensione nella quale immediatamente si manifesta l'essere, si manifesta la realtà. Ne segue che il primo problema che il filosofo si trova di fronte è: che cos'è la realtà? Che cos'è l'essere? Quali sono i principi, i fondamenti del mondo in cui ci troviamo a vivere e a operare? La conoscenza, nel suo orientamento naturale, normale, non costituisce un problema perché essa è proprio questa apertura immediata alla realtà... poi, certo, vi è l'errore, vi sono le divergenze fra i vari soggetti, tutta una serie di fenomeni che ci spingono a riflettere sulla soggettività come tale, sulla coscienza stessa, sul pensiero, e naturalmente viene poi elaborata tutta una teoria della conoscenza che si cimenta a vari livelli con temi e problemi importantissimi, la sensazione, l'esperienza, il concetto. Se guardiamo ai più grandi pensatori di questa fase, da Platone e Aristotele ad Agostino e Tommaso, l'orientamento fondamentale è proprio verso un conferimento di senso ragionato, argomentato, alla realtà. Quando il pensiero funziona, è direttamente orientato all’essere. Naturalmente, ci si rende conto che poi la dimensione soggettiva ha tutte le sue peculiarità che la distinguono dalla dimensione dell'oggettività, dalla dimensione naturale, ma non si dubita che la filosofia sia essenzialmente ontologia: un'ontologia che  in  primo luogo, con i presocratici, è studio della natura; poi, quando si comincia ad approfondire la riflessione, in un ripiegamento su di sé, diventa filosofia dell'uomo, e questo è il momento della sofistica di Socrate; infine, vi sono quei grandi pensatori sopra menzionati che daranno un esplicito orientamento metafisico alla ricerca. Metafisica come studio della realtà, dei suoi aspetti più universali, quegli aspetti che travalicano l'esperienza, studio dell'essere come tale, dell'essere in quanto essere, cioè di quelle proprietà, di quelle caratteristiche che una realtà possiede per il semplice fatto che è realtà, indipendentemente dalle configurazioni particolari che la caratterizzano e la animano. Tutto ciò per quanto riguarda la filosofia teoretica, cioè il problema della realtà e il problema della conoscenza: quest’ultimo è un problema che per tutti gli  autori ricordati sicuramente esiste, ma in un certo senso compare  in seconda battuta, perché l'orientamento immediato del pensiero è verso l'altro da sé. In fondo il pensiero è come l'occhio, l'occhio non vede se stesso, vede le cose, deve specchiarsi per vedere se stesso, o forse deve accorgersi di un suo cattivo funzionamento per essere portato a rivolgere l'attenzione su se stesso. Questo vale per il pensiero in generale. Non si dubita che ci sia una realtà e che compito della filosofia sia cercare di scoprirne in qualche modo il senso: la tendenza di fondo è comunque di affermare che l'esperienza nel suo insieme non è in grado di rendere conto di se medesima. Platone ha bisogno di evocare una dimensione trascendente per spiegare in qualche modo le dinamiche del mondo sensibile. Aristotele valorizza di più il mondo sensibile e critica il modo in cui Platone presenta la trascendenza, ma poi anche lui incentra la sua filosofia sulla ben nota dimostrazione dell'esistenza di un Motore immobile, Atto puro, Pensiero di Pensiero. Il Cristianesimo, a livello di pensiero, porta certo molte modifiche, molte integrazioni, soprattutto porta l'attenzione sulla dimensione personale dell'uomo, sulla soggettività che diventa anche libertà, che diventa spiritualità in un senso più pieno, ma fondamentalmente la filosofia cristiana, sia a livello dei Padri della Chiesa, come Agostino, sia a livello dei Dottori della Chiesa, della Scolastica, come  San Tommaso d'Aquino, non fa che consolidare e rinforzare questo impianto, in definitiva confermandolo.  È ovviamente banale presentare Agostino come il Platone cristiano e Tommaso come l’Aristotele cristiano, ma ciò che è banale non per questo è sempre falso, anzi tutto sommato ci dà quello schema di fondo che in seguito potremo e dovremo riempire in maniera sempre più opportuna e dettagliata, ma comunque ci offre un orientamento,una bussola.
Vediamo però di caratterizzare, in questa prima fase, anche le altre due dimensioni che ho preannunciato: filosofia morale o etica e poi, in qualche modo, la visione della polis. E' naturale che, quando l'uomo cerca di conferire in maniera razionale e non semplicemente istintiva un senso alla realtà, lo fa anche allo scopo di dirigere e orientare il suo comportamento. Per intenderci: se io so che la realtà è strutturata così-e-così, spero di trovare in essa un valore che in qualche modo faccia da orientamento al mio comportamento etico. Per la filosofia antica – e la riflessione cristiana sull'etica non farà che confermare questo dato di fondo – la cosa fondamentale è vedere, si, l'agire umano, ma in rapporto al suo fine. Per i pensatori antichi e medioevali - Aristotele è colui che tematizza maggiormente questa prospettiva, ma essa vale anche per Platone e per Socrate, che poi non è altro che Platone giovane, dato che Socrate lo conosciamo solo attraverso i testi di Platone o poco di più -  ciò che qualifica, ciò che specifica l'agire umano è il fine cui esso tende, quindi il contenuto, l'oggetto. Per questa impostazione filosofica la domanda essenziale è la domanda sul valore supremo, inteso come ciò che in qualche modo ha il potere di attrarre a sé l'agire umano. C'è una dimensione di normatività, la legge morale, il precetto, che poi diventerà dominante in alcuni autori, per esempio gli Stoici, che già pongono in primo piano l'idea del dovere, ma non è l'idea dominante della filosofia antica: l'idea dominante è il fine. A che cosa deve tendere la mia azione? La norma valida a livello etico è quella che mi conduce verso il fine giusto, quindi, in un certo senso, il fine è ciò che brilla di luce propria mentre la legge brilla di luce riflessa. L'idea dell'obbligazione come fondamento di un'etica che a sua volta è tutta una faccenda di comandi e divieti è un’idea tipicamente moderna e non antica. In generale non è un’idea predominante nemmeno nella prospettiva cristiana di un Agostino e di un Tommaso. Ma il fine a sua volta che cos'è? E' qualcosa di dedotto, argomentato dalla struttura della realtà. Per la mentalità greca la  speculazione filosofica deve darci una visione complessiva e coerente della realtà, affinché io possa, partendo di lì, vedere che cosa vale di più. Fondamentalmente il comportamento corretto dal punto di vista etico è quello con cui, nelle mie scelte, io rispetto la gerarchia, la gradazione di valori, così come è stata messa in luce dall'indagine metafisica. Quindi l'etica, la morale non è che un corollario della metafisica. Le voci in campo metafisico potrebbero anche essere discordanti, e questo succede nella filosofia antica: infatti non c'è solo quel filone dominante trascendentistico e spiritualistico di Platone e di Aristotele, c'è anche il filone materialistico e atomistico, pensiamo a Democrito prima e a Epicuro dopo, c'è uno stoicismo che, per quanto sottolinei molto certi aspetti di spiritualità e quasi di ascetismo nella sua visione dell'uomo, parte in fondo da una visione che oggi chiameremmo monistica o panteistica, il Logos come qualcosa che unifica tutta la realtà, al di fuori di una visione di trascendenza vera e propria, però lo schema di fondo viene sempre rispettato. Quale l'immagine della realtà, tale il mio comportamento morale, per cui io devo realizzare l'essenza dell'uomo, in armonia con la realtà in cui l'uomo si muove e agisce. La filosofia, da un punto di vista teoretico, deve dirmi che cos'è l'essere e, dentro l'essere, che cos'è l'uomo. Per esempio se l'essere è costituito soltanto di atomi che si compongono o si disgregano, allora anche l'uomo è a sua volta frutto di questa composizione di atomi, e la cosiddetta anima, che giustamente sta a cuore a Vittorio, non è che un insieme di atomi, ed allora anche la gerarchia di valori cui deve ispirarsi il mio comportamento sarà qualcosa che dipende da questa configurazione della realtà che è stata stabilita a livello metafisico, sicché il mio fine supremo sarà la ricerca del piacere, o la fuga dalla sofferenza. Esiste insomma un'etica che è su base metafisica, cioè il pensatore antico se non avesse prima elaborato una metafisica non saprebbe poi che indirizzo imprimere alla sua etica, e l'etica è basata sul primato del fine, che poi vuol dire il primato dell'oggetto, del contenuto. Se ci si ponesse l’interrogativo radicale “ma perché l'uomo deve comportarsi in modo da conformarsi a ciò che sa della struttura dell'essere contemplata metafisicamente e alla struttura di se stesso, che in fondo è poi un caso particolare per quanto eminente della struttura dell’essere?”  un filosofo tipicamente greco come Socrate - e non sarebbero certo Platone o Aristotele a smentirlo - risponderebbe: perché solo così io posso essere felice. Quindi il fine ultimo è la felicità, intesa come beatitudine, come armonia finale, definitiva fra l'uomo e l'essere. L'azione immorale qual è in fondo? È l'azione di un uomo che si comporta come se la realtà nel suo insieme, e lui nella realtà, fossero un qualcosa di diverso da quello che sono. Certo, se è vera la filosofia di Platone, allora comportarsi come se fossimo solo un aggregato di atomi sarebbe inadeguato sul piano fisico e di conseguenza immorale sul piano etico.
Qui vale la triplice equazione socratica scienza =  virtù = felicità. Il sapiente è di per sé virtuoso. Chi non è virtuoso, chi compie il male, è perché non conosce il bene, è ignorante. Non è possibile, conoscendo il bene, non farlo. Per questo tutti non possono non volersi comportare in modo razionale. Possono ingannarsi su quello che la razionalità indica ma nessuno pecca volontariamente. Il comportamento  razionale e buono – buono perché razionale – ci porta alla felicità, mentre l'infelicità può essere solo il frutto di scelte teoreticamente erronee. Abbiamo caratterizzato quindi in modo sintetico e sbrigativo, ma spero sufficiente, le caratteristiche del pensiero antico e medioevale a livello teoretico e a livello etico. Il Cristianesimo scompagina questo quadro ma non più di tanto. Certo lo riempie con  la potenza e l'esperienza della predicazione di Gesù Cristo. Seguendo fino in fondo l'etica cristiana, vi troveremo l'idea della creazione, di Dio, di un Assoluto pensato in modo metafisico. Che poi esso sia il Motore immobile, l'Uno di Plotino, o il Demiurgo platonico, che queste  siano veramente delle raffigurazioni soddisfacenti del Dio ebraico e cristiano, sono problemi che ci poniamo noi più di quanto se li ponessero loro. Anche i grandi teologi della cristianità, nei secoli, quando si tratta di elaborare il dogma cristiano si appoggiano volentieri, non fosse altro che strumentalmente, a quegli elementi del sapere filosofico  che consentono un più facile approccio, un più facile dialogo con i pensatori greci, quindi sottolineano quasi volontariamente queste corrispondenze; e sappiamo benissimo che la Scolastica, con questa sua volontà di guardare alla filosofia greca, non sempre ha accolto veramente quella che è l'essenza profonda del messaggio cristiano.
A livello di etica della vita comunitaria si deve rilevare anzitutto che nella Repubblica, il dialogo importantissimo in cui Platone presenta la sua idea della Polis (probabilmente ha ragione chi dice che a Platone, pur con il suo misticismo e il suo anelito verso la trascendenza, interessasse più di tutto organizzare la città dando, bontà sua, il potere ai filosofi: la legittimazione del loro potere si fondava sul fatto che essi avevano contemplato il mondo delle idee e dovevano quindi essere in grado di strutturare la convivenza umana secondo questa alta conoscenza), la società umana è vista come qualcosa di  naturale. L'uomo è naturalmente socievole. Siamo in società perché abbiamo bisogno uno dell'altro: io so fare soltanto il ciabattino, non so fare il panettiere, quindi ho bisogno di vivere in società col panettiere, col fabbro, con l'insegnante, col medico ecc. Loro a loro volta avranno bisogno di me e,  in definitiva,  questa naturalità del vivere associato porta a pensare che la società sia per certi versi contemporanea all'uomo e perfino anteriore. L'uomo è già da sempre in una condizione sociale. Non sarebbe l'uomo che è se non fosse socievole, Aristotele diceva che se non fosse socievole sarebbe angelo o bestia. In  un certo senso quindi la società è qualcosa di più della somma degli individui, anzi l'individuo propriamente detto non è poi tanto in primo piano nella visione dei Greci. In loro c’è un po' l'idea che contino di più la vita politica, l'agorà, la piazza, se volete anche la partecipazione democratica con tutto quel che di bello un simile quadro può avere anche nella nostra visione. Questo è per loro l'orizzonte autentico della vita umana e l'uomo attinge il massimo del suo valore partecipando alla vita pubblica: in fondo Socrate andava in giro tutto il giorno (il che faceva la felicità sua ma, a quanto pare, non quella di Santippe)  parlando con tutti di fatti che riguardavano la vita della città e cercando di spingere i suoi interlocutori a riflettere, ad andare al di là della prima e immediata impressione, ciò che è  indispensabile per intervenire con cognizione di causa nella vita democratica. E' questo l'orizzonte del pensiero greco e anche quando i medioevali elaborano, in un certo senso, una filosofia della storia - Agostino che mette in rapporto la città dell'uomo con la città di Dio, Tommaso che interviene, come del resto Dante, nel grande problema medioevale del rapporto fra autorità secolare e autorità spirituale - al di là dei contenuti declinati diversamente, confermano sempre questo modello, per cui l'uomo è naturaliter in  società come il pesce è nell'acqua. Un modo di impostare i rapporti che per certi versi potrebbe sembrarci equilibrato, normale e semplice. Però, il Cristianesimo è anche quella religione che parla dell'anima come di ciò che individua i singoli uomini. Quando si parla, per esempio, di  “una città di trentamila anime”, questo modo di esprimersi è una tipica eredità del Cristianesimo e, poco o tanto, è un sottolineare la soggettività, l'anima come sorgente della nostra individualità, mentre invece nella mentalità degli antichi, a ben vedere, c'è più la partecipazione, cioè la democrazia, che non la libertà come l'intendiamo noi oggi. Libertà e democrazia non sono la stessa cosa, libertà è una dimensione personale che, come vedremo all’interno della modernità, porta a rivendicare uno spazio proprio, al limite solitario, individualistico, contro l'ingerenza dello Stato. Democrazia invece è la partecipazione. Un autore del primo Ottocento, Benjamin Constant, quando parla in un suo celebre opuscolo di “libertà degli antichi e dei moderni”, nomina per seconda la libertà che nel mondo moderno è venuta per prima, cioè la libertà come rivendicazione di uno spazio autonomo, la libertà del liberalismo che modernamente precede quella libertà intesa come democrazia, come partecipazione, che invece era l’unica nota ai Greci e ai Romani.

Ma con questo mi introduco già nella seconda fase del pensiero filosofico europeo occidentale. E' la fase della modernità.Idealmente abbiamo tracciato tre colonnine:  
- pensiero teoretico dell'antichità: soggetto-oggetto che sono in simbiosi o in connessione, realtà come qualcosa di intelligibile all'uomo, filosofia = metafisica
- aspetto etico: morale basata sul fine, primato di un valore o di un contenuto dipendente dalla metafisica
- pensiero politico: continuità fra società, natura, cultura e singola persona.
Nella modernità, le cose si complicano .... questo quadro evidentemente era troppo semplice, bisognava fare un po' di confusione per animarlo ...Vediamo in che senso si è introdotta la confusione  Soggettività e oggettività, essere e pensiero, qui non sono più in stretta contiguità. La soggettività ora balza in primo piano in maniera tale che vengono enfatizzati, sottolineati, in un certo senso irrigiditi aspetti che, nella fase precedente, erano sì presenti ma sempre rimanendo immersi in una continuità con tutto il resto. Cosa vuol dire porre soggettività e oggettività come divaricate? Qui il momento esemplare è il dubbio cartesiano, che non a caso inaugura la filosofia moderna. Che cos’è il dubitare per Cartesio? Egli, partendo  dagli errori dei sensi e poi dall’esperienza dell’errore un po’ a tutti i livelli, si pone questo problema: non sarà che tutto ciò che mi appare evidente a livello mentale è invece qualcosa che non concorda mai con la realtà al di fuori della mente? In fondo tutte le volte che sbagliamo siamo dapprima assolutamente convinti della verità di ciò che in seguito ci apparirà erroneo. Il fatto che qualcosa ci appaia evidente non sembra essere una garanzia. D'altra parte, se poi si rivela errato è perché non corrisponde al mondo esterno. Questa idea che la verità delle nostre proposizioni, delle nostre convinzioni, delle nostre credenze equivalga alla conformità con il mondo esterno, per gli antichi era ovvia, perché non l'avevano problematizzata, mentre adesso la domanda angosciosa che ci si pone, il problema che a un certo momento sembra quasi insolubile è questo: proprio perché il mondo esterno è esterno, e invece tutto ciò con cui io sono in contatto è interno alla mia mente, non sarà che la realtà esterna è qualcosa di irraggiungibile, mentre io sono condannato a muovermi nella cerchia delle mie rappresentazioni? Non sarà che noi non siamo, come si credeva un po' ingenuamente prima, in contatto con le cose, con la realtà in carne ed ossa, ma siamo in contatto solo con le nostre immagini, con le nostre rappresentazioni? Che cos'è il nostro pensiero, la nostra coscienza? È una finestra aperta su una realtà extramentale o è invece una specie di cerchio fatato nel quale siamo come prigionieri? Ricordiamo che la filosofia della prima fase era abbastanza in continuità con le convinzioni del senso comune, dell'uomo della strada. Esiste una realtà indipendente da noi, però noi siamo in contatto diretto con questa realtà. Ora, si continua a pensare che questa realtà al di fuori di noi esista ma siccome è, appunto, al di fuori di noi, chi ci dice, chi ci garantisce che abbia un'effettiva tangenza con tutto ciò che è dentro di noi? Ecco allora la divaricazione, la separazione tra sfera della soggettività e sfera dell'oggettività. Tutto ciò che noi conosciamo è in qualche modo interno all'uomo, soggettivo, relativo. Questa, in termini essenziali, è la grande differenza con la fase precedente.

Cerchiamo adesso di riflettere su quanto avviene nella modernità a livello più ampiamente culturale e non soltanto specialisticamente filosofico. C'è questo senso molto forte della soggettività che, come vedremo fra poco, è anche soggettività dei diritti, a livello per esempio etico e a livello politico, ma poi, come già in parte abbiamo visto, è soprattutto soggettività del sapere, punto di vista soggettivo sulle cose, con tutto quello che questo implica. La conoscenza diviene ora qualcosa di creativo, di costruttivo, prima si poteva pensare che essa rispecchiasse, in un certo senso passivamente, la realtà esterna, anzi che dovesse esserne un rispecchiamento contemplativo, ora invece la conoscenza diventa qualcosa che l'uomo si viene creando, costruendo. Con Kant si chiude un po' il ciclo della modernità che Cartesio aveva aperto, in particolare si chiude con la celebre conclusione della Critica della Ragion Pura: l'uomo può conoscere soltanto il fenomeno, ma non il noumeno, le cose ci appaiono secondo forme soggettive. La metafisica intesa come scienza della realtà in quanto tale non è più possibile. Prima di Kant ci sono nella modernità quelle due correnti contrapposte, razionalismo ed empirismo, che però rientrano entrambe nel quadro di dualismo gnoseologico che abbiamo visto: il soggetto da una parte e l’oggetto dall'altra, si fronteggiano, si guardano in cagnesco, il soggetto deve armeggiare e darsi da fare intorno all'oggetto ma non riesce mai ad afferrarlo. Le immagini, le rappresentazioni che esso si viene procurando, più che rappresentare l'oggetto, in fondo lo occultano, lo nascondono, si pongono come uno schermo, come un intermediario. Esse sono come delle “cose in me” che coprono o velano la “cosa in sé”(tipica espressione kantiana), destinata evidentemente a rimanere inconoscibile.
Cosa comporta tutto questo a livello etico? Abbiamo riempito la prima colonnina per quanto riguarda la filosofia moderna, adesso passiamo alla seconda così come avevamo fatto con  il pensiero dell'antichità.
Qui, un'etica che dipenda dalla metafisica diventa molto difficile, perché la metafisica non c'è più o quanto meno non può pretendere un consenso unanime, condiviso. Ma come costruire una teoria del valore, una teoria del comportamento umano, della condotta umana, che prescinda dalla visione della realtà? Prima uno poteva pensare: guardo la realtà, guardo l'uomo come è fatto, vi leggo una scala di valori, ne prendo atto a livello morale, cercando di rispettarla e di non trasgredirla. Ora, sembra che la realtà non si presti più a una lettura di questo genere, perché non è più accessibile alle risorse della conoscenza umana. Ora l'uomo è convinto di poter costruire una scienza della natura, una fisica, una chimica usando lo strumento matematico, ma non è più convinto di poter costruire una metafisica, c’è ovviamente la religione, per chi ci crede, ma non è più la stessa cosa. E allora un'etica, un sistema di valori intorno ai quali ci si possa raccogliere come a qualcosa di condiviso, da cosa può venire?  Voi capite che si deve operare come un riassestamento del discorso etico, un riassestamento che per certi versi è un capovolgimento. Non si può più dare un primato all'oggetto come prima,  quando si deduceva la norma giusta, la legge, dalla visione dell'oggetto a livello metafisico. Kant, che è colui che elabora all'interno della modernità la dottrina morale alternativa,  in un certo senso fa il contrario di quel che si faceva prima, cioè parte dalla legge, dall'obbligazione, vale a dire da una moralità centrata innanzitutto sulla dimensione del comando, del dovere, della norma, e cerca di dedurre dalla struttura formale della norma quelli che possono essere i contenuti dell'agire. Prima, era un'etica finalistica o teleologica, adesso diventa un'etica deontologica, un'etica del dovere, che per forza di cose è un'etica formalistica. Il comando morale è concepito come imperativo categorico: “devi perché devi”. Dove gli antichi lasciavano intendere “devi perché così, realizzando la tua natura, sarai felice e appagherai tutte le tue aspirazioni profonde”, in una visione eudemonistica (da eudemonia), in un certo senso utilitaristica ma ad alto livello, la modernità invece ci propone per un certo verso un utilitarismo a livello molto basso, da bottegaio, compensato per latro verso da un ideale morale molto alto, che vuol essere il più anti-edonistico e anti-utilitaristico possibile. Devi perché devi, kantianamente, non già “devi agire così per raggiungere un certo scopo”. Lo scopo,  il fine ultimo non deve essere qualcosa di presupposto all'agire morale. L'imperativo è categorico, devi perché devi, anche se non è chiaro perché diavolo devi. La risposta è: deduci dalla struttura stessa della norma, puramente razionale, ossia dalla “ragion pratica”, quello che di volta in volta devi fare, cioè, in poche parole, agisci come se la regola della tua azione dovesse valere come principio di una legislazione universale. Il Cristianesimo aveva detto: non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te, ma quello che conta è che ora l'etica si muove esclusivamente a livello di condotta umana. Se vogliamo, l'etica non implica tanto il primato del bene, del fine come era nella visione antica, ma il primato del giusto. Io non so bene su cosa impostare la mia vita, però l'agire è moralmente valido quando io agisco in un modo che non dipende dall'interesse particolare egoistico che posso avere in una determinata situazione ma agisco in un modo tale che vorrei che chiunque altro, al mio posto, agisse come agisco io. Un'etica di questo genere dovrebbe valere per tutti, indipendentemente dalle prospettive metafisiche o religiose, perché dovrebbe essere un'etica autonoma dalla metafisica. Anzi, per Kant, agire in base a credenze religiose sarebbe un agire non veramente morale ma utilitaristico, cioè per schivare un castigo o per raggiungere un premio, sia pure nell'al di là, quindi toglierebbe la purezza dell'agire morale. Questo fonda l'ideale della giustizia a livello politico, che per la modernità è molto importante, e non è tematizzato nella stessa misura degli antichi che, anzi, pur avendo visioni molto ampie e anche molto spirituali, non avevano problemi a dividere l'umanità in schiavi, padroni e cose di questo genere, mentre l'etica di Kant è l'etica della dignità universale della persona umana. Secondo un'altra formulazione, infatti, devi agire in modo tale che la natura razionale, sia in te sia negli altri, valga sempre come fine e non  soltanto come strumento. L'etica fondata sul non strumentalizzare l'altro, sul non oggettivare l'altro è l'etica moderna.

A livello politico, per completare il quadro della modernità, mentre gli antichi vedevano una simbiosi, una comunanza abbastanza naturale di individuo e comunità, i moderni vedono la società come un che di artificiale, tant'è vero che la fanno dipendere da un contratto, il contratto sociale. E' una finzione,  se volete un esperimento ideale, ma la dice lunga sul modo in cui viene interpretato il rapporto fra individuo e società. Gli individui esistono tutti quanti anteriormente alla società. C'è uno stato di natura, o cosiddetto tale. Tutto questo lo trovate in autori come Hobbes, come Locke, come Rousseau. Il contrattualismo poi è compatibile con un esito di monarchia assoluta , di liberalismo o di democraticismo parasocialista alla Rousseau, ma alla base c’è pur sempre la decisione degli individui di accordarsi per costruire una convivenza il più possibile basata su criteri di giustizia, che possono poi essere ben illustrati da un'etica come quella kantiana. La società è una creazione artificiosa dove si riuniscono almeno tendenzialmente persone che hanno visioni del mondo diverse ma che dovrebbero convergere in un comportamento di mutuo rispetto. Visioni diverse, compatibili con l'ideale della libertà di coscienza, anche se d’altra parte ci sono, come sapete, nella modernità guerre di religione, dovute al fatto che la cristianità perde la sua unità. Però alla fine, o per stanchezza o  per  maturazione, si conviene che è impossibile andare avanti a combattersi e che è meglio accettare di rispettare la coscienza di ognuno. La libertà di coscienza assume allora un valore dominante, ancor più e ancora prima della partecipazione democratica. Ecco il liberalismo moderno che però, come tutte le medaglie, ha il suo rovescio: in questo caso si tratta del fatto che, coniugandosi con il relativismo e  lo scetticismo che abbiamo visto essergli connaturato in sede epistemologica, un simile liberalismo si presenta come l’esplosione di ciò che chiamiamo, intendendolo per lo più come una brutta parola, individualismo e che poi, portato all'estremo, diventa anarchismo, nichilismo etico e cose di questo genere. Però, se ci riflettete, vedrete che tutto questo, all'interno della modernità, si inserisce con una sua coerenza, come i tasselli di un mosaico. Entro questo schema, ovviamente, troviamo anche l'idealismo di Hegel, che in fondo critica Kant in base a un'esigenza di coerenza. Hegel dice: ma se noi siamo solo in contatto con il fenomeno e mai con la cosa in sé, come mai parliamo della cosa in sé come se fosse qualcosa di reale? Allora è reale soltanto il fenomeno, mentre la cosa in sé, l'essere che sta al di là è assunto solo dogmaticamente; allora il pensiero è l'assoluto, perché non deve fare i conti con  nessuna realtà ulteriore, il pensiero addirittura crea i fenomeni, il pensiero è creatore della realtà. Qui abbiamo, per un certo verso, una celebrazione della libertà del pensiero, che sembrerebbe andare nella direzione di un massimo di valorizzazione della soggettività e di rispetto della libertà di coscienza, ma siccome questo pensiero che crea la realtà non è il pensiero di ognuno di noi, come io empirici, ma il pensiero dell’Io puro, trascendentale, ecco che dall'idealismo viene fuori non solo una lezione di libertà, ma anche una tendenza verso il totalitarismo. Come sapete, è tipico della modernità un alternarsi, un susseguirsi di visioni molto liberali, molto individualistiche, e di visioni dove invece la società viene quasi deificata, con un primato che gli antichi non si sarebbero mai permessi di conferirle, ed allora abbiamo il totalitarismo nelle sue varie declinazioni. Da Hegel viene fuori certamente Marx, per un certo versante, ma per l’altro versante, anche tramite Nietzsche,vengono fuori i totalitarismi di destra che insieme al comunismo si sono incaricati,  soprattutto nel primo Novecento, di rendere molto movimentata la storia d'Europa.

Ma che dire del contemporaneo? Il quadro è ancora molto in evoluzione. Vediamo di esplorarlo a livello della filosofia del Novecento, ermeneutica da una parte, filosofia del linguaggio dall'altra.  In Italia ci sono state propaggini dell'idealismo tutt'altro che secondarie, con Gentile e Croce che sono i nostri più grandi pensatori del primo Novecento, sicuramente seguaci di Hegel, non a caso uno conquistato dal totalitarismo e l'altro che se ne ritrae in tempo ma non  senza averne avvertito un qualche fascino. Se noi percorriamo bene tutto il periplo della filosofia a livello gnoseologico, ci rendiamo conto che si parte come se soggetto e oggetto fossero in  continuità, in concordanza uno con l'altro, poi a un certo momento si passa invece alla fase della dualità, della divaricazione, ma sempre perché si ammette che l'oggetto, la realtà in quanto tale, sia indipendente dal soggetto, c'è insomma questo presupposto  realistico secondo cui la realtà come tale è indipendente da noi che la conosciamo. L'idealismo in fondo è quella filosofia – a chi la studiava a scuola sembrava un po' bizzarra - che mette in dubbio l’indipendenza della realtà dal pensiero. Il primo impulso è di concludere che allora il pensiero crea la realtà, poi, se si ha pazienza di andare fino in fondo ci si accorge che si ritorna a qualcosa di simile al punto di partenza, perché ovviamente non è credibile che il pensiero crei davvero la realtà. E' credibile semmai che la realtà sia quella che appare al pensiero, cioè non ha senso pensare a una realtà indipendente dal pensiero perché la realtà è quella che si manifesta al pensiero. Soltanto che oggi, di fronte a quella che è la dinamica conoscitiva, abbiamo una visione molto più ampia, molto più articolata e problematica di quanto non avessero gli antichi. Il conoscere degli antichi era adaequatio rei et intellectus, corrispondenza di pensiero e di cosa, quindi un rispecchiamento passivo, mentre noi oggi intendiamo il conoscere soprattutto come un interpretare. Il conoscere è un esercizio interpretativo o, per dirlo alla greca, ermeneutico. Ciò vuol dire fondamentalmente che, quando cerchiamo di conoscere qualcosa (questa è la grande lezione che il contemporaneo trae da tutto lo sviluppo della modernità), non si tratta mai di mettere a confronto la nostra percezione, la nostra rappresentazione, le nostre convinzioni con una realtà esterna: non avrebbe senso questo, appunto perché la realtà, bene o male (più male che bene), si manifesta sempre attraverso il gioco delle nostre convinzioni, delle nostre rappresentazioni, delle nostre percezioni. Si tratta invece di compiere un percorso interpretativo all'interno delle nostre conoscenze, per cui il criterio della verità, più che essere un criterio di adeguazione fra singole rappresentazioni e oggetti, diventa un criterio di coerenza, di sistematicità, diventa un criterio olistico, infatti oggi si parla molto a tutti livelli di olismo. E' una visione della realtà il più possibile ampia, sistematica. Noi ci muoviamo sempre nell'ambito dell'interpretazione. Qual è l'interpretazione più corretta o, quanto meno, più interessante? Non quella che si adegua a una realtà extra-mentale che non potremo mai afferrare, ma quella che ci dà il senso più vasto, più ampio. Quand’è che, traducendo un testo, siamo convinti di averlo reso correttamente? Quando il senso dell'insieme torna, manifestando una sua coesione o coerenza, ma comunque andiamo sempre per tentativi perché l'oggettività è qualcosa che dobbiamo ricostruire interpretativamente e indirettamente. L’oggettività, la realtà, non è altro che quell' insieme, quel coacervo di rappresentazioni soggettive che realizza dentro di sé la maggiore coerenza e ricchezza di punti di vista. Ma soprattutto - è importante aggiungere anche questo - mentre prima sia gli antichi sia i moderni parlavano sempre del pensiero come di un qualcosa di muto o di silenzioso, oggi, ecco la grande svolta (linguistic turn),si parla non tanto di pensiero quanto di linguaggio. Voi sapete che al centro della questione della filosofia contemporanea c'è il linguaggio, ed è profondamente giusto perché qui direi che la visione dell'uomo della strada è radicalmente inadeguata. Noi siamo portati a pensare che il linguaggio sia un po’ il rivestimento esteriore di un pensiero che, in quanto tale, sarebbe antecedente alla sua espressione, ma oggi invece  sappiamo bene che il linguaggio non è affatto accessorio rispetto al pensiero, essendo quest’ultimo un dialogare che internamente facciamo con noi stessi. D'altra parte anche Platone lo sapeva, dialettica da dialogos, il silenzioso dialogare dell'anima con se stessa. Prima c'è il linguaggio e dopo c'è il pensiero, perlomeno il pensiero a un certo livello di articolazione, di complessità, poiché se mi parlate del pensiero di un neonato o di quello degli animali, posto che pensino, questo può essere in qualche modo pre-linguistico, comunque prendendo il linguaggio nel senso riduttivo di linguaggio fonico, ché se parliamo di linguaggio mimico o gestuale, allora probabilmente a nessun livello e per nessuno cì potrà essere un pensiero anteriore al linguaggio. Oggi noi sappiamo che il nostro pensiero è già strutturato secondo articolazioni sintattiche primordiali, che sono linguistiche. Noi pensiamo perché siamo stati allevati in una certa tradizione che è in primo luogo una tradizione linguistica. Quindi nel linguaggio è interessante non tanto l'aspetto di vocabolario, di lessico, ma l'aspetto di sintassi, di struttura logica. In questo senso, molti, non solo filosofi ma antropologi culturali e sociologi, dicono che in ogni linguaggio sedimenta una visione del mondo. Ma se il linguaggio precede il pensiero, allora l'intersoggettività è qualcosa di fondamentale anche a livello epistemologico, e non solo etico, secondo una persuasione che unifica molte correnti della filosofia contemporanea. Se poi questo deve essere recepito anche a livello etico, ecco che oggi tendiamo a pensare, con  molti filosofi contemporanei, soprattutto di area anglosassone, anche se in un senso diverso dagli antichi, che la polis, la vita associata, la dimensione della cittadinanza sono qualcosa che è anteriore all'etica individuale. Oggi l'etica è vista non come la dottrina del dovere, delle norme, oppure come il progetto che ognuno di noi si fa sulla sua vita, ma proprio come qualcosa che matura nella dimensione della società, soprattutto da  parte di molti autori contemporanei  che si occupano del rapporto fra libertà e giustizia, i due grandi ideali che la modernità ha consegnato alla riflessione morale e politica come il problema principale che sta davanti a noi. Oggi noi dobbiamo cercare di conciliare la richiesta di libertà individuale, che è sempre più forte, con la dimensione della cittadinanza, con la dimensione di un'integrazione fra le varie culture. E qui la sfida è quella di una società non soltanto multietnica ma multiculturale.

Ultimissime considerazioni. Oggi, uno degli interrogativi che questa riflessione molto approfondita ci consegna è il seguente: come organizzare, all'interno di un unico Stato, di un'unica comunità politica, la convivenza fra gruppi, ciascuno dei quali rappresenta culture differenti? Perché, in fondo, tutto quel discorso che facevo prima sul linguaggio, l'interpretazione, l'ermeneutica ecc. può essere anche tradotto così: non c'è nessun dato, nessuna conoscenza nostra che non sia sempre interna a una certa prospettiva, a una certa “pre-comprensione”. Non c'è nessun dato, a cominciare dai dati comuni dell'osservazione, che sia oggettivo, al di qua di un'elaborazione culturale, né d'altra parte ha senso pensare alla nostra mente come  a una tabula rasa. La nostra mente è già molto ricca, molto strutturata di pregiudizi, di pre-comprensioni che sono linguisticamente articolati, che dipendono dall'educazione che abbiamo ricevuto ecc. In  generale, l'idea che sembra portare a un relativismo piuttosto radicale è questa: tutto è sempre mediato attraverso una certa pre-comprensione. Non esiste nessun dato che valga al di qua di elaborazioni teoriche. Tutto è sempre interno a un paradigma. Uno degli epistemologi più in vista, Thomas Kuhn, nel suo libro “La struttura delle rivoluzioni scientifiche” ha parlato della storia della scienza, e non soltanto della scienza, come  successione di passaggi da un paradigma all'altro. Quando dicevamo prima che la visione più oggettiva della realtà è la visione che il soggetto si viene costruendo indirettamente attraverso un processo interpretativo, questo processo deve sempre partire da certi presupposti che, in quanto tali, non possono essere immediatamente messi in gioco, perché potrei metterli in gioco soltanto sostituendoli con altri, sì che il nostro sguardo o colpo d'occhio sulle cose è sempre interno a una particolare prospettiva. Il sapere tradizionale pretendeva di essere -  secondo il celebre titolo di un libro del filosofo morale americanoThomas Nagel - “a view from nowhere”, cioè uno sguardo sulle cose gettato da nessun punto di vista, ma è possibile questo? In  realtà noi guardiamo le cose sempre ponendoci da un certo punto di vista. Uno sguardo from nowhere potrebbe essere solo lo sguardo della divinità, solo lei potrebbe infatti guardare le cose senza insediarsi in un posto o in un altro. Ma se in effetti ogni nostra nozione, comprese quelle che per noi sono più fondamentali, dipende da certi presupposti, come possiamo dialogare in un modo che sia autentico, e non semplicemente di comodo, con culture radicalmente diverse dalla nostra? Questo è il punto.

Dario Sacchi ci parla poi della convivenza culturale in una società multietnica, con l'intento di concludere un discorso generale con un accenno a un problema attuale e quotidiano.
Se ci poniamo infatti il problema di rispettare tutte le altre culture senza pretendere di giudicarle, fin dove deve andare questo nostro rispetto e qual è il suo autentico valore? Questo è un problema che non è nuovissimo, ma magari un tempo lo si enunciava diversamente: il problema della tolleranza. Dobbiamo tollerare tutti quanti, anche gli intolleranti?
Il tema, per quanto non direttamente inerente al tema del Seminario, sarà poi ripreso alla fine del dibattito con una dichiarata presa di posizione di Sacchi in senso cristiano.

Vittorio M.

Ho trovato l'esposto straordinario e ti ringrazio di aver svolto un tema esorbitante come quello della “filosofia nella storia”, che incautamente ti ho posto, in modo veramente eccellente. Poiché, nello spirito del Seminario, esso si inquadra in un ciclo di conversazioni filosofiche dedicate al “rinnovamento dell'uomo” , non sarebbe possibile cominciare a pensare in che modo affrontare questo compito, oggi, senza aver prima dato un'occhiata, appunto, alla filosofia nella storia che ci ha preceduto.
Non potendo competere personalmente con un atleta del pensiero come Dario, non saprei proprio che cosa dire, sennonché, come impressione proprio a livello di uomo della strada... io sarei rimasto alla filosofia di Platone, vedendo cioè la realtà come l'ombra di un altro ordine, di un'altra  dimensione. Dopo questa filosofia, il discorso si è fatto però molto più complesso, facendomi pensare in qualche modo a una persona che dapprima è sola, poi si guarda in uno specchio e così acquista coscienza di un suo doppio, in dialogo con se stesso, e poi, a un certo momento, invece di essere davanti a un solo specchio, ne vede due, tre, e si trova infine fra infiniti specchi. E' come se uno entrasse in uno spazio pieno di questi specchi che rimandano ognuno un'immagine diversa e che si riflettono poi fra di loro. Allora la complessità del discorso è di comprendere qual è l'immagine vera e se c'è un'immagine vera, se è un'illusione, una finzione. Tutto ciò diventa un caleidoscopio in cui la ragione rischia di perdersi.
Questa impressione è naive di fronte ai ragionamenti di un filosofo ma... noi uomini comuni pensavamo che la filosofia fosse un mezzo per aiutarci a dare risposta alle domande semplici e terribili della vita, non solo o non tanto come dobbiamo comportarci nelle sue tante dimensioni o come dobbiamo elaborare le sue complicazioni concettuali ma come dobbiamo far fronte alla morte, al nostro destino, e per questo occorre una visione, l'idea di una trascendenza,  mentre i modi di affrontare dei quesiti così semplici sono diventati così complessi e poi fra di loro interagiscono e appunto uno riflette l'altro, in modo da arrivare, dal punto di vista dell'uomo della strada, a un disorientamento totale. Io avevo centrato il lavoro di questo Seminario sull'esigenza, appunto, di trovare in noi stessi un orientamento, ma uno sguardo al mondo contemporaneo ci mostra purtroppo come esso è lontano da questo intento. Vorrei dire che nel mondo è andata smarrita quella proporzione fra il cuore e l'intelletto che è alla radice, secondo me, della condizione umana, della ricerca della felicità, dell'arte e di tante altre cose. C'è una tale prevalenza della ragione, cioè dell'astrazione, e questo lo vedi nelle tecnologie, nella ricerca scientifica, in tante altre forme di conoscenza. Lo vedi nell'arte che non riesce ad essere più arte, ed infine nella filosofia di cui ci hai esposto nelle grandi linee la storia, che mi sembra che alla base di tutto ci sia l'evento drammatico di questo divorzio fra sentimento e ragione. Come confessione e testimonianza personale, a me pare di guardare non a uno specchio in cui vedere  me stesso né tanto meno a una moltitudine di specchi, ma semmai a uno specchio interiore. Con un atteggiamento come questo, invece di pormi di fronte alla realtà esterna, mi pongo non di fronte ma tutt'uno con una realtà interna che è il riflesso dell'altra ma con una sua  luce. Che poi questo luogo interno sia la grotta di Platone o sia appunto la sede della luce che la rischiara, che essa sia l'oscurità del nostro essere e anche il luogo della luce che può rischiararla, non lo so. Non credo comunque alla separazione fra un interno, un esterno, o a quella fra un oggetto e un soggetto e sono semmai più vicino a una visione di tipo olistico.
Non volevo parlare qui di un atteggiamento personale, ma semmai proporre un modello per capirci meglio. Prima parlavi della città: ho proprio qui di fianco un disegno che mostra una visione semplificata di Milano, semplificata però in un modo molto approfondito che, di fronte all'espansione della città, crea un vuoto interiore. Cosa vuol dire questo?
Non si può pensare a una città solo come a un coacervo di forze economiche, e alla loro pressione su un centro puntiforme. I mezzi che vengono escogitati per limitare il traffico sono dei mezzucci, ma penso che la città debba espandersi in tutta la regione con  una rete di autostrade urbane all'interno delle cui maglie possano vivere, svilupparsi, conservare la loro identità, stabilire un rapporto organico fra di loro e con la natura, tante piccole città, che chiamerei città federate nella nuova e grande metropoli. Come dire, rispondendo a una  problematica più generale, che la libertà di sviluppo di ognuna sarebbe integrata e anzi resa possibile nell'ambito di una razionalità, di una legge, insieme politica, etica e tecnica, come è quella che determina il tracciato di tutta la metropoli. Immagina poi che tutto questo insieme converga, non nel piccolo centro della Milano attuale ma in un vuoto centrale, in cui questo centro un po' alla volta si trasformerebbe. Un vuoto non solo fisico ma in un certo senso filosofico, un vuoto zen. Lo immaginiamo interno all'attuale cerchia dei bastioni, in cui convergerebbe come su un anello terminale tutta la grande metropoli fatta di tante realtà, della loro trasformazione, della loro mobilità e complessità, non esclusa quella portata dall'immigrazione. Dico solo questo per postulare che un pensiero, pur essendo sviluppato al massimo grado, come suggerisce l'immagine della rete autostradale, quasi un network matematico, sappia permettere nel suo ambito lo sviluppo di facoltà più inerenti al sentimento, alla vita familiare, all'educazione dei figli, a una vita armonica in piccole città a misura d'uomo e che infine, nel suo vero centro come in un comune cuore, contenga il seme della storia della città, della sua cultura, della nuova università a cui affidare l'educazione dei giovani.

E'  “La Città a Immagine e Somiglianza dell'Uomo” (vedi Incontro n.3), un progetto che probabilmente non riesco a spiegare bene in questa sede ma che menziono non solo o non tanto come progetto urbanistico, ma come un modello che può permettere molte osservazioni, anche su un piano filosofico. Principalmente l'idea di un pensiero, che non solo ritrova un rapporto con i valori del “sentimento” ma che diventa tanto grande da contenerli, un intelletto che contenga il cuore, così come la civiltà umana, nel suo iper-sviluppo, deve giungere a contenere la natura, a proteggerla, a sentirla come il suo proprio cuore. E l'idea di una complessità che non deve portarci a una sconfinata dilatazione ed esplosione, ma deve essere compresa in un ambito razionale molto più ampio e illuminato delle piccole e desuete razionalità che la continua evoluzione del mondo contemporaneo manda in frantumi ...

Dario S.

Ho già detto all'inizio di questa mia carrellata che la filosofia antica, che appare ed è la più semplice perché ancora in continuità con la coscienza comune, non è poi così debole come sembra.  In un certo senso la filosofia contemporanea ritorna a qualcosa del genere, cioè a un pensiero in diretto contatto con la realtà, non scisso da questa. Il gioco degli specchi di cui parli mi fa pensare alla  monadologia di Leibniz: un' espressione della modernità, monadi senza porte e senza finestre, microcosmi incomunicanti, anche se il giudizio non è del tutto negativo perché si riconosce a ognuno di essi una dignità. La contemporaneità, quando ritorna a un contesto olistico, a una naturalità, può farlo carica di una ricchezza che ha accumulato nel travaglio di una ricerca millenaria. Ricostruire un insieme organico va bene, ma tenendo conto del fatto che noi siamo complessi, non ci basterebbe più fare un bel girotondo intorno al mondo (vuol essere una provocazione...), una vita intorno a un centro vuoto (vuoto rispetto alle nostre balbettanti categorie concettuali ma, se non interpreto male il tuo discorso, in realtà pienissimo, come lo è il nirvana buddista...)  Vogliamo tutti questo ma senza rinunciare alla nostra autonomia, alla singolarità, che è il frutto della nostra civiltà occidentale.  Un richiamo nostalgico a Platone può, se si vuole, additarci una meta ultima ma non può aiutarci molto nella complessità della vita contemporanea, anche guardando solo al problema di una società multiculturale.
Quando mi dici che ti attendevi che un filosofo ti parlasse della morte, della spiritualità ecc. noi oggi abbiamo un po' l'idea che si entri in un grande bazar, in  un grande supermarket, in cui ognuno, per ciò che riguarda il senso della vita, l'esistenza di qua o di là, i valori di sopra o di sotto,  pretenda di scegliere quello che al momento gli piace di più. In questo senso l'esperienza della modernità comporta un senso molto forte della soggettività, cioè vogliamo la religione che ci piace di più, di qui il successo di forme come la New Age o cose di questo genere. E' già un'ottica diversa quella di chi dice: vediamo di capire la verità, che non è necessariamente quello che mi piace e mi gratifica di più… però ho l'impressione che una gran parte dell'umanità contemporanea non ci stia più. Una verità oggettiva sarebbe percepita come soffocante. In certi casi rimpiangiamo la sicurezza e ci pare che la libertà sia un peso, ma in altri casi la libertà coincide proprio con il senso del mondo contemporaneo ...

Vittorio M.

Forse non mi sono spiegato, ma mi sembra che la tua riposta prenda un po' troppo leggermente quello che detto. Il senso della circolarità e, al suo interno, della centralità dell'essere non può essere preso per un allegro girotondo. Tu che sei un grande conoscitore di Nietzsche, non farai il suo stesso errore di fermarti al cerchio come nell'idea dell'eterno ritorno, senza intuire che esso è in realtà una spirale di infiniti sviluppi? Non mi sembra più felice il paragone con un supermarket in cui acquistare le idee o anche le credenze religiose che più ci piacciono, io ti ho parlato dello specchio interiore, lo specchio dell'anima e non  del bazar che è invece proprio quello di troppa filosofia e dell'esposizione ridondante di tutte le mercanzie concettuali che ha in magazzino. Apprezzo già di più che tu colga che, in qualche caso, esista una ricerca della verità, anche se aggiungi che essa potrebbe essere percepita come arbitraria e soffocante in un mondo di dilagante soggettività. Ma io vorrei chiederti: in un mondo di crescente complessità, come è quello contemporaneo, in cui siamo del tutto disorientati di fronte alla sua molteplicità - l'interculturalità che hai menzionato  ne è uno degli aspetti - è veramente fuori di  luogo immaginare, anche se contro corrente, la possibilità che si giunga a un pensiero che, invece di esplodere in ogni direzione, come accade nelle infinite ricerche della scienza e in generale in tutto lo sviluppo contemporaneo, sappia rivolgersi al centro interiore dell'uomo, come appunto nel mio modello di città?
E che in tale centro esso trovi e onori i valori reali dell'uomo, se saprà distogliere lo sguardo dagli specchi fallaci di un'intelligenza fine a se stessa?
Dobbiamo rifiutarci a questa ricerca, solo perché essa potrebbe essere percepita come qualcosa di autoritario, come una legge? O non sarà il caso di impostare un nuovo rapporto fra libertà e legge,
in cui la legge (come nell'esempio della rete autostradale della nuova metropoli di cui ho parlato)
è appunto quella che può permettere la vera libertà, ossia un modo utile e fecondo di essere liberi?

Roberto P.

Sulle cose che si stanno dicendo, a me sembra che ci siano talvolta delle canzonette che creano degli slogan che in  poco racchiudono il senso di quello che può essere un concetto molto grande: stavo pensando a quel verso di una canzone di Battiato “cerco un centro di gravità permanente che non mi lasci mai cambiare idea sulle cose che sto facendo” secondo me questo esprime quello che dicevi prima, cioè la richiesta di sicurezza, di certezze e, rifacendomi ad alcuni discorsi che facevamo nelle settimane scorse sull'arte, questo porta a chieder l'unicità, l'universalità dell'arte, l'idealismo platonico che rimpiange Vittorio, ed è  indubbiamente molto difficile mettersi nella condizione di oggi in cui l'unica certezza è la parzialità della conoscenza, la frammentarietà delle cose. Impossibile raggiungere una certezza finale, anche per esempio sul discorso che facevi sul pensiero che crea il linguaggio o il linguaggio che crea il pensiero. Siamo agiti dal linguaggio (Dario S. interrompe: siamo “parlati” dal linguaggio) come ha dimostrato a suo tempo molto bene Umberto Eco, ma se questo è vero, deve esserci stato un momento in cui qualcosa che stava nell'interiorità dell'essere umano ha trovato una realizzazione, una concettualizzazione da cui poi... questo spiega perché esistono varie culture con diversi linguaggi. Per cui la cosa per cui noi ci sentiamo oggi deboli è proprio questo: è l'impossibilità di riaffermare una conoscenza come quelle antiche, anche se il rischio...Bertolt Brecht scriveva una poesia, “Ode al dubbio”mentre un altro intellettuale, Joyce, affermava che l'eccesso di dubbio porta all'inazione. Allora proprio questo mi pare il senso del tuo discorso conclusivo. Ci troviamo in una condizione in cui quel senso ermeneutico, che dovrebbe portare a una visione olistica delle cose, ci sentiamo nell'impossibilità di raggiungerlo, e qui mi sembra che si possa dire che la filosofia contemporanea proprio per questo non riesce a sviluppare una metafisica, contrariamente alle filosofie del passato.

Dario S.

C'è stata una fase in cui lo si è tentato, ma oggi si tende a pensare che il pensiero metafisico sarebbe un pensiero violento, autoritario, proprio perché pretende in qualche modo di incasellare la complessità della vita in categorie forti, che quindi in un certo senso mortificano l'autonomia del soggetto ecc. Quanto a quella frase di Battiato che tu hai ricordato, quanti veramente si riconoscono in quella tensione, in quell'auspicio, quanti desiderano veramente quel centro (Roberto P.  interrompe: certo che lo desiderano) in reazione alla sua mancanza, però ho l'impressione che oggi non ci sia questo, mentre in passato, prendiamo la posizione di Kant che dice: “ho dovuto togliere il sapere per far posto alla fede” nella prefazione alla Critica alla Ragion Pura.  Kant ritiene che la domanda metafisica sia fondamentale in qualsiasi uomo, poi è sinceramente sofferente per il fatto che, a suo avviso, risposte non se ne diano, e allora cerca di recuperare all'interno di una dimensione etica che per lui ha un valore altissimo, il dovere che ha un qualche riferimento a una metafisica. Oggi come oggi, più che domandarsi se sono possibili risposte a determinate domande, ho l'impressione che si tenda a delegittimare la domanda in quanto tale, presentandola un po' come uno pseudo-problema. Nell'alta metafisica che ritroviamo nel positivismo del Circolo di Vienna che dipende da Wilkenstein, come pure nello storicismo Europeo con Croce da un lato, Heidegger da un altro, o quando si dice in “A point of view from nowhere” che è ingenuo pensare di conquistare un punto di vista sulle cose che sia veramente universale e non dipenda da un condizionamento culturale, si conferma che qualunque nostra affermazione è sempre culturalmente condizionata a un contesto. Se uno pensa di tirarsene fuori è perché è un po' matto...Forse la filosofia seria dovrebbe -  e in questo senso i filosofi non lo fanno perché cavalcano spesso il discorso facile, il seguir le mode - perlomeno liberarci da questo, cioè ricuperare fino in fondo almeno il pathos antico, la domanda sulla verità, perché oggi non c'è tanto il problema, a mio avviso, di rimpiangere le risposte (Vittorio interrompe: ma io non ti ho mai detto che le rimpiango, ma che amo molte cose in Platone, anche perché lo considero un anima religiosa e poetica, e non solo un filosofo raziocinante come tanti altri) che non possono essere più riproposte come tali, oggi bisognerebbe però ricostruire il significato profondo di certe domande perché oggi c'è una visione relativista per un verso, storicista per un altro, scientistica per un altro ancora. Un Boncinelli troverebbe prive di senso delle istanze di metafisica che, a suo avviso, potrebbero essere anche riportate a un disagio mentale, di cui si dovrebbe semmai occupare la psicanalisi, a parte che anche questa appare troppo generale e vengono ricercate semmai delle terapie pronto-uso. Bisognerebbe invece recuperare la metafisica, se non come scienza come aspirazione, che è quello che diceva Kant.

Vittorio M.

Su questo sono d'accordo, ma quanti nomi, quante citazioni! Come vorrei sentir dire a un filosofo quello che è veramente nato nel suo animo, invece di vedermi proporre una quantità di prodotti, proprio come nel bazar di cui parlavi prima. Che l'abbia detto Kant o no, la metafisica non come scienza ma come aspirazione è proprio ... l'aspirazione che ho nel cuore, ed è anche quello che questo Seminario propone: il Lavoro Spirituale. E' una metafisica?
Diciamo meglio che è un meta-lavoro, qualcosa che va al di là del nostro lavoro, cercando di portare in esso i semi di una visione, di un significato. Se tu ne vorrai approfondire il senso sono sicuro che vedrai  proprio questo recupero del pathos antico nella ricerca della verità di cui parli, e non il rimpianto  per le risposte di una volta che credi a prima vista di scorgere. Certo, quando si sente parlare di una città ideale, non si può non pensare subito a Platone, ma sarebbe molto limitativo e inadeguato non saper leggere altro nel modello di cui ho parlato, che è invece in dialogo, eccome, con le esigenze del mondo contemporaneo e le travalica anche in un progetto di futuro. E' un'utopia? E' utopia l'istanza di ritrovamento di un centro interiore, che l'umanità sembra aver smarrito? Anche se le tendenze in atto vanno in un senso diametralmente opposto, cioè verso l'esplosione della molteplicità e della disgregazione, è appunto per questo che bisogna aspirare al movimento complementare verso una centralità. Fa parte della dialettica della storia, nonché dei ritmi fondamentali che regolano il tutto: dall'unità alla molteplicità e dalla molteplicità all'unità.
E' ingenuo aspirare a un punto di vista universale? Lo sarebbe certamente in termini di conoscenza, in cui non possiamo prescindere dall'infinita complessità e variabilità delle idee in gioco ma non in termini di fede che, senza parlare di alcunché di confessionale, mi sembra proprio l'aspirazione
all'Uno, origine, senso e fine di noi stessi.

Patrizia Sophie G.

Noi interpretiamo, nel momento in cui lo facciamo siamo schiavi delle nostre credenze ... ma in quanto creatori ci indirizziamo al futuro. Mi sembra che lo sviluppo della filosofia la spinga sempre di più verso un “sottile”. Perché allora rimane così ancorata a troppe definizioni sempre uguali nel tempo, contro la parola vivente, il verbo .... E' l'essere che conta, il movimento continuo del pensiero, che non deve neanche essere necessariamente alla ricerca di qualcosa ... l'anelito a sapere quello che siamo, ma senza aspettarci qualche cosa, vogliamo solo essere ...

Gerardo P.

Io vorrei chiedere: c'è stato qualche movimento filosofico o la soluzione di qualche problema che i filosofi hanno applicato ed è stato riconosciuta nella storia dell'umanità? Per esempio la tolleranza: che significa tollerare anche gli intolleranti, una domanda senza una risposta, un problema senza una soluzione. Mi domando quand'è che un individuo si definisce filosofo ... Vittorio a un certo punto della sua vita avrà deciso di fare l'architetto, ha studiato ed ha poi realizzato dei palazzi, dei progetti ecc. Il falegname realizza anche lui i suoi lavori. Quand'è che un individuo dice: io voglio fare il filosofo, e che cosa fa? Quello che ha detto Vittorio prima potrebbe essere una teoria filosofica buona (Dario S. senz'altro, su piazza del Duomo però non ci giurerei..) ognuno di noi manifesta delle opinioni, ma non si definisce filosofo per questo ...

Dario S.

Ascoltando il tuo intervento mi è venuto da pensare sulla storicità della filosofia, è quasi come una palla di neve che scendendo si ingrandisce sempre di più. Vicenda del pensiero umano, come avventura o con quale finalità? Quella di una auto-chiarificazione. (Patrizia Sophie G.: crea la realtà?) Dire che crea la realtà è molto impegnativo ... Io cercavo di prendere qualche suggerimento da quello che hai detto...anche in una situazione come la nostra, dove non sembrano più esserci sistemi forti, un po' perché non li vediamo, un po' perché li rifiutiamo, allora un'indicazione che nonostante tutto potrebbe venire è il cercare l'appartenenza a una tradizione, l'avvertire il fatto che apparteniamo a una tradizione e ci sentiamo in continuità con essa, anche come preludio per ciò che seguirà. Una fedeltà alla nostra vocazione, perché il discorso sulla storicità è anche un discorso di pietas, di devozione verso i monumenti, la la memoria, il ricordo.  Sarebbe una giustificazione dello storicismo in una forma alta, non però sufficiente per disegnare le forme di convivenza a cui mirare nel mondo di oggi. E' una cosa che andrebbe richiamata perché tendiamo a dimenticarla. Questo nichilismo, soggettivismo, pensiero debole tende a dimenticare la storia, l'eredità, il legame al nostro passato.

Vittorio M.

Devo richiamare ancora una volta il modello di metropoli di cui ho parlato, il cui “vuoto” centrale contiene proprio il nucleo storico della città. E' giusto guardare ad esso con devozione, di cui sono pervase le pagine del mio libro che ne parlano, ma un pensiero “forte” non solo non dimentica la storia ma ha il coraggio di progettare un futuro, di cui la storia, la radice, l'identità sono il seme vivente. La pietas di un Enea non si attarda sulle memorie di Troia ma si proietta verso la futura fondazione di una nuova città, o almeno questa è l'interpretazione di Virgilio, anzi, è la forza vivificante della poesia e non l'arido storicismo dei nostri tempi. Vorrei testimoniarne anche nella nostra città, con il progetto di costruire l'Arca nella Piazza del Duomo. Ma chi crede alla poesia? Si direbbe che i problemi di mutua comprensione e convivenza che evochi non ci siano solo fra persone e gruppi di culture diverse, ma anche fra concezioni diverse all'interno della nostra stessa cultura, o fra diversi livelli di cultura, o fra una vera cultura creativa e le menti paralizzate.

Il dibattito continua poi con la risposta di Dario S. a Gerardo P. sulla funzione della filosofia, che comincia scherzosamente con il detto: “la filosofia è quella cosa con la quale, per la quale, senza la quale il mondo rimane tale e quale”. Magari fosse stato così, dice Dario S., almeno non avrebbe fatto del male... Dopo averne invece illustrato tanti aspetti positivi o comunque riconducibili a un'influenza della filosofia, il discorso si allarga e ritorna poi sul problema della convivenza fra diverse culture.  Esplode un dibattito molto acceso, in  cui Dario S.  sostiene che la tolleranza è una qualità peculiare del Cristianesimo, un punto di vista che suscita le proteste un po' di tutti e  in particolare di Francesco R. Quando poi parla di radici giudaico-cristiane della nostra cultura, il dissenso è totale. Il dibattito è troppo convulso, con tante voci che si sovrappongono, e non è quindi possibile registrarlo né d'altra parte proseguirlo a un'ora già tarda.


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il dibattito può proseguire on line scrivendoci: arcadelduomo@gmail.com