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C.1.1.14

il Lavoro Spirituale
Arte come cammino interiore

Incontro n° 9 del 20 maggio 2009
Conversazione di Andrea Del Guercio, Professore di Storia dell'Arte all'Accademia di Brera, in dialogo con Vittorio Mazzucconi, sul tema:
Arte come cammino interiore


Indice IL LAVORO SPIRITUALE

 

Nel dibattito sono intervenuti anche Caterina Bazzani, Patrizia Sophie Graja, Patrizia Gioia.

Vittorio Mazzucconi

Cari amici, grazie ancora una volta, come ogni mercoledì ci ritroviamo, anche se non siete sempre gli stessi. Non vorrei ripetere gli scopi di questa iniziativa, che oramai molti di voi già conoscono: su Internet ce n’è una documentazione abbondante, ci sono tutti gli interventi, c’è il programma di questo Seminario che ha il titolo di “Il lavoro spirituale”. Ho già tante volte spiegato che il lavoro spirituale è il lavoro materiale che facciamo e che quello che si richiede è un orientamento, un intento che si vive in modo spontaneo nell’opera degli uomini che ce l’hanno nel cuore, degli artisti, dei poeti, dei santi; mentre in altri, in noi tutti, bisogna un po’ ricostruirlo, ritrovarlo, essere aiutati in questa ricerca. Comunque, non è un seminario inteso come un esercizio di meditazione staccato dalla realtà ma, attraverso i discorsi che abbiamo fatto sulla città, sull’architettura e adesso sull’arte, vuol essere un impulso, non solo un richiamo a quello che io credo guidi la storia e la vita dell’umanità e della civiltà, ma un impulso concreto, in questo momento storico, di fronte al dilagare del materialismo, della dispersione dei valori, soprattutto nel campo dell’arte, per non parlare anche del campo dell’economia ecc, E' importante compiere un lavoro di riesame, di riordinamento, di orientamento interiore, che poi ci porta ognuno nel proprio campo a esprimerci in un modo nuovo..
Stasera abbiamo invitato Andrea Del Guercio, che è professore di storia dell’arte e si occupa in modo particolare di arte sacra, a intervenire in uno dei tre incontri di questo ciclo, che ha il titolo di “arte come cammino interiore”. E’ forse una definizione un po’ personale, non penso che entri nella storia e nella critica d’arte: “arte come cammino interiore” come in ogni vita deve esserci un cammino interiore, e direi in modo particolare nell’opera di un artista che, senza indulgere a tentazioni di moda e di superficialità, riesca a trovare il filo del rapporto con la propria anima. Quest’arte interiore ambisce anche a percorrere il sentiero del sacro, della spiritualità, ma non è necessariamente un’arte sacra: sarebbe bellissimo che le due cose combaciassero, ma viviamo in un periodo di grande scissione, di grande tormento, e la cosa è quindi difficile.
A questo punto lascerei la parola a Del Guercio che ha senz’altro da dirci qualcosa in proposito.    

Andrea Del Guercio

Io sono stato colpito da questo ... Voi avete mandato gli inviti, me ne è arrivato uno e il viaggio interiore di cui parla mi ha incuriosito. Ho capito subito che c’era una corrispondenza, senza che noi ci conoscessimo, senza che conoscessi la tua attività. Diciamo che nel mio cammino interiore, ho incrociato questo tuo messaggio.

Vittorio Mazzucconi

E’ la prima volta che ci vediamo.

Andrea Del Guercio

E’ la prima volta, sì. Direi che il lavoro che svolgo, ritengo che non potrebbe fare a meno di questo. Nel senso che se non avessi per tutta la vita avuto questo tipo di atteggiamento, penso che non avrei speso correttamente la mia vita anche umana e professionale. Cioè la mia vita interiore è fatta anche dalle e-mail come la tua che mi è arrivata. La mia vita interiore si è costruita attraverso le cose che mi sono arrivate per tante strade, per cui vorrei provare a interpretare, a plasmare, perché ho sentito il tuo dubbio tra vita interiore e arte sacra ... potrei fare la lezioncina sull’arte sacra contemporanea, ma non mi sembra ce ne sia bisogno. Provo invece ad aprire un confronto tra appunto vita interiore, dove nella vita interiore l’azione di ricerca che poi si configura come professione è fondamentale, e vita. E' un binomio inscindibile per me.
Vorrei partire da questa concezione che ho maturato: ogni prodotto dell’arte, dal disegno all’opera, dalla maquette in gesso al grande bronzo, vive una particolare condizione che scarsamente gli è stata attribuita in questi duemila anni di storia occidentale. E adesso dico esattamente di che cosa si tratta. Io penso che l’opera d’arte sia esattamente, fondamentalmente come un bambino, un ragazzino, cioè l’opera d’arte è in grado di esprimere e di mantenere non intatta ma in costante movimento una complessità di segreti interiori con possibili e infinite ricadute nelle relazioni esterne. L’opera d’arte è come un ragazzino di pochi anni, nel senso che ha in se stessa gli elementi  del padre e della madre, i valori educativi della famiglia e della società e quant’altro, ma poi dentro di sé, a seconda delle infinite variabili esperienziali  che vanno a collocarsi, a confondersi nel suo sviluppo, accentua, migliora, cancella una serie di valori. L’opera d’arte cioè parte, sia che sia iconica o aniconica, con una sua definizione, un territorio di valenze, ma poi in realtà, mutando la sua collocazione, muta le valenze che esprime. L’opera, la scultura, il quadro, cioè, una volta abbandonato lo studio dell’artista, il luogo protetto, comincia a navigare e  va a collocarsi in maniera molto disponibile nelle infinite, appunto, variabili che la realtà gli offre; va in una collezione, in una chiesa, in una casa, va nello  studio di un antiquario, in un talk show televisivo, va, va , va ...
Ecco, questo mi sembra il primo passaggio, che ho messo in evidenza. Il secondo passaggio, su questo tipo di esperienza, ho tentato di metterlo alla prova: cioè ho scelto di volta in volta dei luoghi non deputati all’arte, non specificamente conservativi, protettivi, ma dei luoghi, dei territori, determinati da fruizioni umane diverse, dall’ospedale alla stazione, dalla casa privata alla chiesa. Nel caso specifico del rapporto con il sacro, allora, ho potuto gestire alcuni spazi sacri, nel senso di sacro liturgico, cioè consacrati, e destinati ad un’azione liturgica. Questo è bene capire: che il sacro di volta in volta lo dobbiamo intendere in maniera mirata, precisa. Tu hai parlato, facendomi vedere i tuoi progetti, di battesimo: sono luoghi liturgici e non teologici, ne hai avuto perfettamente coscienza e li hai saputi gestire. Io parlerei però adesso di luoghi consacrati, e quindi destinati ad un’azione funzionale alla liturgia, con una serie di passaggi: dall’altare, l’ambone, i grandi fuochi centrali della liturgia cattolica, a tutta una serie di altre liturgie: la preghiera,  l’adorazione, la penitenza, la morte, la nascita.

In questi luoghi, così complessi, nella progettazione e nella realizzazione, ho collocato delle opere d'arte, e mi sembra, dimmi se sbaglio, di aver colto una sintonia con la tua introduzione, cioè nel senso che delle opere che non erano destinate, all'origine dell'atto creativo, alla liturgia, dei quadri non devozionali, ma con i  quali io provavo a entrare in sintonia nella prospettiva di andare a collocarli in un luogo così fortemente caratterizzato. Fa parte della responsabilità dell'atto critico, delle sue scelte, di spostare e collocare le opere.  Io attribuisco un'enorme importanza al concetto di responsabilità, cioè nella collocazione, nell'installazione, inserisco la valenza concettuale dell'atto critico, cioè permetto all'opera di tentare, come farà un giovane, un ragazzo, un bambino, di reagire alle reazioni. Come un bambino, deve reagire alla novità del posto, come farebbe passando dalla pastasciutta a cui è abituato nella mensa scolastica al sushi, e così l'opera deve reagire, trovando in se stessa gli elementi della sua vita interiore. L'opera ha una vita interiore. A monte dell'atto creativo, dentro l'atto creativo, di cui forse lo stesso artista non era cosciente - nella vita non abbiamo coscienza di tutto - c'era al suo interno una parte di aura, di sacralità, di testimonianza, che le permetteva in quel contesto di reagire così. Naturalmente, questo tipo di discorso, io lo posso fare sui tratti delle funzioni in uso, devo ripetere quali sono, poiché certamente la complessità del luogo consacrato mi ha portato ad alzare moltissimo il livello della reazione, della risposta: La dialettica sarà fra l'opera e lo spazio ma soprattutto dentro l'opera e in rapporto alla fruizione personale. L'opera ha un percorso interiore suo che nel tempo varia, evidentemente come noi variamo nelle percezioni, nella sensibilità e nelle scelte tecniche, estetiche. L'opera viene messa in certe condizioni - come al ragazzo vengono offerte tante condizioni di crescita che tutte si sviluppano per caso - per accedere al luogo della conservazione, in una collocazione storica.
E' importante prestare attenzione a spazi minori o non noti, perché hanno preservato uno spazio di verginità analitica, nel senso che, rispetto a grandi opere, indagate, vissute, elaborate, l'opera anonima, quella che trovi sull'altare minore, in una chiesa minore, o in un piccolo museo periferico,  quell'opera probabilmente ha ancora molto da dire di suo, del suo percorso, del suo processo spirituale, della sua comunicazione. Sono opere che devono ancora espletare compiutamente, in maniera articolata, la complessità del loro patrimonio. Questo è un po' il punto a cui sono arrivato io, ma come tu hai visto in questo libro pubblicato due anni fa (Arte Cristiana contemporanea. Editrice Ancora), è l'opera di un gruppo molto articolato di persone, di voci, di sistemi ... una babele linguistica, una babele iconografica. Mi è stato detto che in un inserto speciale che l'Avvenire ha fatto sull'arte sacra, in prima battuta è stato segnalato ... l'evento clou di un lungo processo che nasce ovviamente da Matisse, dalla Cappella di Venezia, da Krohko e tanti altri. E' un processo di elaborazione che non è, a questo elemento tengo molto, teorico ma che parte ed ha radici nell'elaborazione espressiva,. non fa leva su se stesso. E' un contributo apportatore di valori a questo processo attraverso  opere che non sono appartenenti alla confessione, ed è anche un fatto intergenerazionale. Oltre il 60% delle variazioni iconografiche nasce dai giovani, non esistono raffreddamenti di tipo formale, astratto, pop ecc. e tutti insieme fanno questa complessità rispettata, come una tendenza a far convivere il grande peso del patrimonio nella sua globalità, nella sua specificità, ma anche grande freschezza, rapidità, grande accettazione del rischio, della mediocrità, del banale, del quasi schifoso, perché è la collocazione, è la funzione, è lo spazio che spesso si è dimostrato in grado di togliere quel po' di schifo, di alzare la qualità, smussare la volgarità. Le installazioni che abbiamo fatto, di carattere provvisorio o permanente, hanno un'inseminazione, un termine concettuale mentre è più teologico quello di seminatore, di pastore, chi semina. Ciò ha rivelato sia a docenti di pittura, di scultura che soprattutto agli studenti che è in atto una sorta di rinnovamento costante, di anno in anno, di generazione in generazione, e che è confermata la ricchezza, la grande stimolazione che il patrimonio globale produce su di loro. Mentre la devozione popolare è un valore assente nel sistema dell'arte, noi abbiamo l'impressione che la devozione non può essere per volgarità dell'avanguardia critica esclusa dal gioco ma anzi abbiamo scelto di immergerci nella devozione. Cosa c' è di più straordinario di un uomo che è presente in più momenti, come questo Padre Pio che ha questo enorme successo, o come Teresa di Calcutta, la santità che prolifica nella contemporaneità, Santa Chiara d'Inghilterra ecc Evidentemente queste figure, per un giovane artista, non possono non essere occasione di impegno. Ecco, abbiamo molto lavorato su questo ed è bastato chiedere un giorno a trenta giovani se non gli veniva in mente di fare una mostra sulla santità ... e il giorno dopo c'erano trenta opere, tutte esposte nella cripta longobarda del Duomo. Questa eredità dialettica di objets trouvés e ready-made ... quando è uscita? L'hanno trovata spontaneamente i ragazzi, partecipando, senza bisogno di diapositive, e collocando le loro opere nel luogo, la cripta fa la differenza ...

Vittorio M.

In primo luogo mi è piaciuta la definizione dell'opera d'arte come di un bambino. Quanto a me, la colloco un passo indietro: nei precedenti incontri ho parlato della nascita di un'opera d'arte come nasce un bambino, cioè il cuore da una parte e l'intelletto dall'altra, come fossero il femminile e il maschile, danno nascita a un'opera che deve essere viva. Non ho mai pensato all'aspetto che tu hai evocato, che l'opera poi col tempo possa rivelare sempre nuovi contenuti e avere una sua propria vita interiore, ma lo trovo giusto, al di là appunto del fatto che l'artista possa esserne consapevole o meno, perché l'opera segue poi la sua vita. Quindi, in questo senso, non avrei obiezioni sul fatto che l'opera, dopo essere nata in modo vero come reputo indispensabile,  viva poi anche come un bambino, e che poi venga percepita, diventi adulta, viva nella società. Tuttavia sono sorpreso di sentir attribuire all'opera una vita interiore che, invece, nei pensieri a cui si ispira l'intento di  questo Seminario, è il cammino interiore nell'anima dell'artista. Non vuol essere un'opposizione o un gioco di parole ma intendo il cammino interiore come un processo profondo, doloroso, di presa di coscienza di sé, del passare da pulsioni vitali, dal mondo dei sentimenti o anche dalle nostre costruzioni mentali, a una visione chiarificata, ascendendo e avvicinandosi a una vita spirituale. E questo mi sembra che faccia parte dell'anima dell'uomo e non dell'opera. Dovrebbe essere anzi il processo di qualunque essere umano, dalla nascita alla morte, ma che l'artista ha modo di esprimere in un manufatto, di oggettivarlo, in qualche modo partorendo qualche cosa come un figlio, in cui questo suo cammino, questa sua ansia prendono una forma che poi continua a vivere per conto suo. E' accaduto anche a me, certe cose fatte trenta, quarant'anni fa hanno avuto un seguito in contesti diversi da quelli che avevo immaginato, interagendo con essi..
Questo per ciò che riguarda il cammino interiore. Per ciò che riguarda invece il luogo, tu mi dici che anche un ready-made o un'altra cosa, se posta  in un luogo sacro, in una cripta, diventa significativo, diventa una reliquia. Perché questo mi sorprende? Perché ho sempre sentito che il luogo è principalmente, anzi solamente, una questione interiore. Sento questo se vuoi nel più profondo dell'anima. Non ho mai  fatto una chiesa, purtroppo, però posso dire che non c'è una sola cosa progettata nella mia vita che non sia un tempio, anche se magari il cliente poteva chiedermi di fare, che so io, un centro commerciale (vedi scheda La nuova Agora), oppure una sala di pattinaggio (vedi scheda l'Arca delle Nevi) o qualunque altra  cosa,  perché il luogo sacro è il luogo del nostro cuore, quindi non una cosa esterna, è il cammino interiore di cui parlo, è quello di costruire, trovare, inventare nel senso latino di invenire, costruire il luogo interiore, e questa è la mia opera, il mio intento, il fare di se stessi il tempio, anche se questa aspirazione si proietta in quello che la vita ci permette realmente di fare. Purtroppo, mentre nei tempi antichi, la costruzione del tempio interiore era anche oggettivata, generazioni intere si dedicavano alla realizzazione di queste grandi opere, che fossero i templi greci, le cattedrali gotiche o altre forme, oggi come oggi proprio andiamo maluccio,.non vedo queste realizzazioni, non vedo questa aspirazione. Una volta tutta la popolazione di Milano, per esempio, si concentrava nella realizzazione del Duomo, con mille contributi, con ingenti risorse economiche, con una costanza e la devozione di secoli e secoli. Oggi come oggi, per fare una piccola cosa come l'Arca del Duomo di cui ti ho parlato e che ha ancora un senso devozionale, devo cavalcare suggerimenti come quello di farne un'icona per l'Expo o di risolvere problemi pratici, suscitando comunque un mix di indifferenza e opposizione.
Per ciò che riguarda poi le opere specifiche di cui hai parlato, devo dire la verità: tanto le tue parole mi sono sembrate colte, intelligenti, feconde anche di sviluppi, tanto le opere in gran parte mi hanno lasciato del tutto freddo. Ma non vorrei fare un torto né al critico che le ha scelte, accettate e sostenute, né tanto meno ai giovani che le hanno fatte, Penso che in un tempo come quello in cui viviamo, non ci sono più le condizioni di una volta, in cui c'era una maestria artigianale, nel solco di una tradizione, con una cultura e una religione riconosciute e condivise, e gli uomini e gli artisti potevano incanalarsi naturalmente in diversi livelli e funzioni, dall'artigianato alla grande arte..in cui potersi esprimere. Mi sembra che oggi le stimolazioni del mondo vadano in tutt'altra direzione: la maestria degli artisti è scomparsa, le seduzioni del mercato sono onnipresenti, insomma mi sembra occasionale, fuori da un'ispirazione profonda e condivisa,  che un artista si metta a contribuire a un luogo sacro con una sua opera o anche se lo fa, con  le migliori intenzioni del mondo, personalmente non mi commuove. Mi sembra che per suonare questa sinfonia che viene dal cuore, occorra un grande cuore, un grande spirito, una grande conoscenza, un impulso che va molto al di là dell'esercizio, per quanto simpatico, di giovani che si danno a questo compito, con “opere” fatte dalla sera alla mattina.

Andrea D.

Mi venivano in mente, è una cosa che cito spessissimo, delle parole di Mario Luzi dedicate a una cosa che tu conosci bene, che è Santa Maria del Fiore, il Duomo di Firenze. Luzi scrive un piccolo libretto in cui .mi ha insegnato che un'opera ha una vita interiore. Il padre e la madre lasciano al ragazzino gli elementi perché non solo cresca ... ”io sono in Santa Maria del Fiore, per secoli vedo uomini entrare ... ”a me personalmente interessa molto questa condizione, a conferma che lo spazio, che a sua volta ha accumulato nel tempo i segni del passaggio di chi l'ha vissuto, che sia barocco, neoclassico o quant'altro, è in un dialogo, un confronto con l'opera. C'è un sistema di relazioni che permette il  venir fuori di cose che, nell'opera nata precedentemente,  erano nascoste. Poi è chiaro che non tutte naturalmente sono opere scelte ...
Faccio un esempio: i cori dietro l'altare, forse  per il fatto che, dal piccolo oratorio alla bellissima basilica, il coro è il luogo dove le opere esplodono o forse la presenza, la memoria depositata nel canto, questo elemento avvolgente, esaltante rispetto magari al rapporto diretto con un altare laterale, che è un po' più freddo, più lucido, con le spalle al muro.
Un parroco certamente non rivoluzionario si trovò di fronte a un'opera contemporanea, un grande volto di Gesù, due metri per due, che era poi un puzzle che si smontava all'infinito, e che trovò collocazione proprio in rapporto col padre di Gesù, davanti all'altare di San Giuseppe. I due quadri cominciarono a dialogare direttamente, a relazionarsi, quando il puzzle veniva smontato i bambini cominciavano a giocare con i suoi pezzi, allora l'artista disse: ognuno di voi si porti via un frammento di Dio e tutti, la prossima volta, dopo il  catechismo, ritornate a casa con un pezzo di arte contemporanea, un quadro, insomma, questa cosa dovrà funzionare molto bene. Il parroco era eccitatissimo...abbiamo messo in casa quattordici frammenti di arte contemporanea ... A me è piaciuto molto ...

Vittorio M.

Posso intervenire? Io sono Fiorentino, come diceva Dante natione, non moribus, e con Santa Maria del Fiore ho un sentimento particolare. Sono tornato a Firenze due, tre mesi fa. Che città meravigliosa, e poi i grandi uomini che hanno fatto Firenze, un Dante, un Brunelleschi, un Donatello, era come se li vedessi di persona! Mi sembra che tutti quanti abbiano espresso l'identità di questa città, la sua anima, e fra tutti, direi, troneggia il Brunelleschi che, con il Cupolone, le ha impresso un sigillo straordinario. Questo mi ha fatto pensare, non senza commozione, che anch'io faccio parte di questo popolo, per cui i pensieri che sono nati in me, le opere che ho fatto sono suggerite da questo stesso grande spirito, non in particolare dalla chiesa di Santa Maria del Fiore. Ho tuttavia un rapporto particolare con essa e in particolare con il Cupolone. Come stavo prima in modo molto sommario spiegando a Andrea, a proposito del  mio progetto per un  nuovo Centro di Firenze, io ho immaginato che, intorno all'incrocio originario dei suoi assi, che si riferisce non solo alla fondazione romana della città ma che è in fondo la croce, in un senso precristiano, nasca questo movimento in forma di spirale, fatta di successivi ottagoni, che, guardandolo dall'alto, è proprio come un fiore, è il Fiore, così io lo chiamo. (vedi scheda La Città Nascente) In quel momento, quando ho scritto un libro su questo progetto, mi ha colpito il fatto che questo edificio-fiore si chiamava proprio come Santa Maria del Fiore ... ma non è finita lì: anni e anni dopo, mi sono accorto che il Cupolone,  che è come un bocciolo chiuso, nel mio progetto si è aperto. Il concetto di questa apertura viene dallo stesso impulso che opera in ogni pianta del mio giardino: quando viene il caldo, vuole fiorire, è come la nostra anima che, qualunque sia il luogo, che ci siano altari o no, reliquie o no .... c'è un bisogno insopprimibile della nostra anima ad aprirsi, fossimo pure in un deserto, fossimo pure in una stazione ferroviaria. La spiritualità è dentro, ma non solo come un fatto personale o come uno sguardo che vada al di là della realtà apparente, ma nel senso che dentro c'è una voce ... non solo nasciamo dai genitori ma nasciamo dallo spirito e in particolare dallo spirito  di un popolo, da un'essenza, dal seme dell'identità di un luogo che è però anche cosmica, è il sé, è il Cristo, io sono molto sincretico ... E quindi trovavo non certo una coincidenza ma uno sviluppo necessario il fatto che questo bocciolo potesse aprirsi e, in tutti i sensi possibili, fiorire in una nuova nascita, in una nuova dimensione ... E' una cosa naturale ma, rispetto all'innaturalità di troppi aspetti del mondo umano, diventa un vero e proprio rovesciamento, simile a quello operato dalla fede .
Su un piano più modesto e personale, vorrei fare l'esempio di questo spazio in cui ci troviamo stasera.  Quando la gente lo elogia e dice “che bel luogo, che bello spazio”, io non ci faccio neanche caso o mi innervosisco, perché di luoghi così io posso farne moltissimi, non mi fermo su questo, non ho l'idolatria del luogo, il sacro può prendere tante forme, una volta prese la forma di un tempietto, un'altra di un battistero, può essere Santa Maria del Fiore, può essere il Duomo di Milano, può essere anche la mia Arca di fronte al Duomo, può essere anche questo spazio, ma l'importante è il contenuto spirituale, ed è questa la vera consacrazione ...
Una cosa che mi ha colpito nel tuo discorso è che purtroppo, dato il senso di un ritiro con cui vivo in questo luogo, dove  opero e, oso dire, prego, la maggior parte delle mie opere rimangono qui, non posso misurare questo bellissimo processo con cui l'opera continua a vivere, e prendo quello che dici come l'augurio che questo possa un giorno accadere.

Andrea D.

Le tue parole sono importanti ... non è tanto, non è solo come noi diamo corpo al luogo, come interagiamo col luogo, che esso sia antico o moderno, soprattutto consacrato, non solo a una religione ma anche consacrato a un evento, a una nascita, a un ospedale, alla morte, a un cimitero, alla scuola, allo studio, al supermercato, consacrato a valenze molto importanti (io da tempo vorrei trovare il modo di essere presente in un grande centro commerciale). Ciò che mi interessa è il rapporto fra un luogo consacrato (adesso parliamo di una consacrazione liturgica o anche solo teologica, come luogo della riflessione, della preghiera, dell'ascolto) e l'operatore,  che sia l'artista, il curatore o il critico. Cosa  succede quando si finisce alle 11, si chiude tutto e rimane l'opera dentro?  L'architetto dice: nella mia architettura non ci devono stare le opere, non vogliono le opere nell'architettura moderna, ... tutto bianco! Ho fatto il Commissario in ben cinque concorsi della Conferenza Episcopale della Diocesi di Milano, nessuno vuol sentir parlare di colore, di opere ... bene, quindi queste opere rimangono da sole, cominciano a dialogare fra di loro, dialogare con gli spazi, con le vetrate, con le porte, con tutto questo sistema molto spettacolare che è l'aula liturgica. Abbiamo cominciato dieci anni fa a entrare in questi luoghi per studiarli, sono già cambiati, fisicamente, si è cominciato a spostare l'altare, le statue, cambiare le luci. Le opere che hanno questa grande possibilità sono come fiori a primavera, sbocciano ... se non c'è grandine, neve e, umidità, è un proliferare di fiori che sbocciano, anche sbagliando stagione. Questa è l'arte contemporanea.
Attenzione, contemporaneo non è il tempo, è questo filo tagliente, che definisce il sistema linguistico della comunicazione. Per esso è contemporanea quest'opera e non quell'altra, e ti proietta in un tempo lungo che attende la sua contemporaneità, e la contemporaneità le la diamo noi, cioè è il fruitore che la da, nel momento in cui si incrociano le sensibilità. Abbiamo testimonianze nell'arco straordinario di questi cinquant'anni, minimo ma straordinario. Yves Klein negli anni '60 era giovanissimo, fa un viaggio in Italia e per due giorni sparisce, poi ritorna, fa il suo diario, va ma non si sa dove vada. A distanza di dieci anni,  nel santuario di Cascia, si comincia a guardare e si trova un'opera di Yves Klein,  Santa Rita da Cascia era la santa dei poveri, dei miracoli impossibili della miseria e lui, siccome sua madre era una devota, fa un piccolo oggetto, lo appoggia e parte, senza una lira, con l'autostop. Yves Klein che era un giovane, un astro nascente dell'arte contemporanea,  sa una cosa, segreta: ecco la vita interiore, sembra un gioco da bambini, una scatoletta, e invece dopo 6 anni è sbocciata, ed è contemporanea, oggi è esposta in un museo. E Pollok che attacca una sua grande tela di 12 metri al soffitto, non l'ha mai esposta, ma .tanti anni dopo al Beaubourg salta fuori da uno studio dell'Arch. Sorio che c'era il progetto di una chiesa a Long Island, la cui vetrata doveva farla proprio Pollok, ed era quella prima tela appesa al soffitto. Siamo nel 47-48, al limite, prima di Matisse. E' curioso, è un bisogno antropologico in particolare degli anni '60 che le opere, perché esprimano il percorso spirituale, l'esperienza sentimentale dell'artista, debbano attendere il formarsi di un .territorio ricco e con molte interferenze, in gran parte anonimo, come quello dell'arte antica. Alle persone che chiedono consigli sugli acquisti, io dico sempre: puntate sull'anonimo ma collettivo, sull'infinita variabile, la cui vita biologica è costantemente rianimata dallo scontro, dall'amore, dalla congiunzione con altre esperienze. Questo è il mio pensiero.

Vittorio M.

Da quello che dici sto imparando ... la mia opera è nata ... ma non è mai uscita, un uscire che io reputavo come una cosa puramente esteriore, strumentale, magari attraverso una mostra di cui rifiutavo la futile occasionalità. Invece mi dici che da questi contatti nasce la possibilità di un'interazione, di trovare una coincidenza, una corrispondenza con altre sensibilità,.e questo lo trovo molto giusto

Andrea D.

Avevi forse un atteggiamento iperprotettivo. Molti artisti, soprattutto negli anni '70, tendevano proprio a non fare uscire le opere

Vittorio M.

... non a questo punto, le immagini appese al muro della facciata dell'Avenue Matignon a Parigi (vedi Incontro 4) e di altre opere lo mostrano. Ho però la tendenza, non a tener chiuse in casa le opere per proteggerle come farebbe una madre col suo bambino, ma neanche a metterle fuori perché, in qualche modo, il processo del pensare, del sentire l'opera fino al suo compimento, mi impegna totalmente fino al suo termine naturale, come un frutto e al suo cadere dall'albero quando la sua maturazione è completata... e, dopo questo,  già penso a un'altra opera. Quanto al  percorso che l'opera può invece fare da sola, suscitando interazioni ecc ... non ci ho mai pensato. Magari, fra cento o duecento anni, finirò col diventare contemporaneo anch'io.
Vorrei aggiungere che nell'ultimo incontro c'è stata una grande discussione sull'arte contemporanea, in un confronto col Futurismo. Io sostenevo che, mentre il Futurismo si riempiva la bocca con il termine “futuro”
-  a ragione o a torto, si viveva certo in un momento di grande entusiasmo - oggi non c'è più un'aspettativa del futuro, e prende invece un'incredibile enfasi il concetto di contemporaneo. Ci riempiamo la bocca di questa parola: l'arte contemporanea, l'architettura contemporanea ... poi io sostenevo che è un  concetto del tutto provvisorio e fasullo, il contemporaneo di dieci minuti fa già non lo è più. Tu gli hai dato però un'accezione che mi piace, cioè quella di contemporaneo non in un senso temporale ma nel senso di qualcosa che all'improvviso trova il suo contatto con l'urgenza del suo tempo. E' questo che mi piace. Più che parlare dell'arte contemporanea di oggi parlerei della possibilità che un messaggio trovi il suo contatto, la sua fioritura nella coscienza delle persone, puoi chiamarle fruitori ma io parlerei del contatto fra l'anima dell'artista e l'anima degli altri uomini.  E' questa un'esigenza di cui non avevo coscienza, magari neanche altri artisti ne hanno coscienza. In questo senso c'è quindi una vita dell'opera al di là dell'esperienza dell'artista che l'ha creata, una vita che porterà una traccia del suo cammino interiore, ma che la vivrà all'esterno, parlando magari all'interiorità di altre persone.

Andrea D.

Io non ritengo il Futurismo un movimento artistico importante. Ha presentato alcune utopie ed ha avuto alcuni autori. Globalmente non amo il Futurismo, anche se apprezzo certe opere di Boccioni o di Balla.
D'altra parte io lavoro sempre più sulle opere che sugli autori ... sul Futurismo ho grossissimi dubbi, mentre credo che abbia avuto una funzione straordinaria nell'aggiornamento del pensiero delle avanguardie all'inizio del secolo. Come movimento però, soprattutto quando poi confluisce nel secondo Futurismo, è di bassissimo livello. Ma torniamo alla contemporaneità. Non è un movimento, è un linguaggio, questo cambia molto

Vittorio M.

Questo è stato molto discusso. C'è stata un'insurrezione contro l'assunto che sia considerato contemporaneo solo quello che corrisponde a un certo linguaggio, i cui valori verrebbero fissati dalle istituzioni del sistema dell'arte ...

Andrea D.

Il sistema dell'arte non ha nulla a che vedere con la cultura dell'arte. Se penso al mio libro “Arte cristiana contemporanea”, arte contemporanea ce n'è tanta, arte cristiana ce n'è tanta ma arte cristiana contemporanea c'è solo quella. Così c'è tanta arte oggi che non è contemporanea:.dico questo naturalmente sotto la mia responsabilità, non ci sono dubbi... La citazione e l'iscrizione, ecco il primo elemento che io insegno. L'opera di citazione è quella che cita, che ripete, che usa frasi, strumenti che non sono iscritti in modo originale.  Tornando al bambino, lo “iscrivi”, appunto, all'anagrafe. Certo, come un bambino, anche  un'opera può avere dei riferimenti ai genitori, dei frammenti, ma è in sé una novità, ed è una novità aperta che deve ancora sbocciare, è in evoluzione la sua contemporaneità, il resto è citazione, grande nemica di tutta la storia dell'arte. Nell'arte antica, la citazione era imposta dalla committenza. Il povero Caravaggio era uno dei pochi che sapeva trasgredire...
Se in un'opera non c'è tensione concettuale, non è contemporanea

Vittorio M.

Se non c'è tensione concettuale, non è opera d'arte e basta, che sia contemporanea o no! Cosa c'entra il contemporaneo, forse non si usa la parola giusta. Tu dici che ti interessa quello che aderisce all'esperienza di oggi, che non si attarda a citazioni del passato, che ha un'intensità espressiva, va benissimo ma il concetto di contemporaneo cosa c'entra?...ogni periodo della storia dell'arte è stato contemporaneo, l'arte vera è stata contemporanea, ma anche al di là del proprio tempo, ha raggiunto il perenne, ed è questo che oggi noi cogliamo nell'arte del passato e perdiamo invece in quella di un perenne fine a se stesso.
Quanto all'affermazione che non ci sia arte cristiana contemporanea al di fuori di quella che hai presentato nel tuo libro, mi permetto di contestarla....poiché sono pittore anch'io, dai per favore un'occhiata ai miei quadri! ... (vedi Incontro n° 8 e Catalogo di pittura)

Andrea D.

Se confronto due vite del Vasari, quella di Duccio e quella di Giotto ... qual'è l'elemento che rende contemporanea l'opera di Giotto rispetto a quella di Duccio? Perché Duccio dipinge alla maniera greca, sta fermo, non si muove da Siena, è statico, mentre Giotto è come una stella del cinema, un giorno è, si direbbe, a New York, un giorno è a Padova, poi torna, fa il campanile ...

Vittorio M.

... insomma un uomo di successo, una star! E' questo il concetto di contemporaneo? Io vorrei ricordare invece una visita alla Cappella degli Scrovegni, che non potei visitare perché non avevo prenotato. Dovetti così comprare un bellissimo libro, con i particolari di tutte le teste, fotografate profittando delle impalcature dei restauri, e le vidi così proprio come le fece Giotto, per poi lasciarle subito dopo senza rivederle mai più. Altro che uomo d'affari! Mi commuove pensare alla verità artistica e umana della sua opera, e anche a questo distacco e al seme lasciato per altre vite, per altre sensibilità. Questo mi aiuta a capire il discorso che facevi prima, che l'opera ha una sua vita...anche sette secoli dopo.

Andrea D.
 
Menziona il particolare di un “incazzato” in un affresco di Giotto in S.ta Croce, per esclamare: una provocazione!, quella era la contemporaneità! O anche Caravaggio che “si sostituisce”a Sant'Orsola, o Pasolini, .per chiedersi: qual'è l'elemento contemporaneo in tutto questo? E' l'attualità!

Caterina B.

Domanda: l'opera è viva partendo dall'intuizione dell'artista per finire alla percezione di chi la guarda?

Andrea D.

Il pensiero critico nasce verso la fine dell' 800 e si sviluppa attraverso una coscienza scientifica di sé, .ha una responsabilità ipoteticamente scientifica, si basa su documenti, su strumenti, su sensibilità, su soluzioni ecc. Perché questo ? Se Giovanni ha i calcoli c'è il chirurgo, è Andrea, che gli toglie i calcoli ma è Giovanni che guarisce e sboccia a nuova vita ... è come la realizzazione di un ponte che permette questo passaggio. Il concetto di responsabilità che mettevo in evidenza all'inizio, la competenza per svolgere questo tipo di lavoro fanno esplicitare la complessità vitale dell'opera. E' anche frutto del lavoro del chirurgo, dell'ingegnere che aiuta al superamento del fiume con il ponte ... c'è quindi una responsabilità scientifica anche se io sono a-scientifico perché, a differenza dello scienziato, uso uno strumento ambiguo, che è la sensibilità.
L'opera ha una vita perché tu la vedi, le dai vita mentre magari l'opera era prima nascosta, non vista

Vittorio M.

vorrei tornare a quello che dicevi parlando di Giotto e di un certo gesto del suo affresco ... io amo moltissimo Giotto ma non lo amo particolarmente per queste cose ma per la sua straordinaria unità espressiva, che poggia su una solidissima base umana, etica, realistica, icastica che ha in più la luce di una sintesi superiore. Che questa comprenda anche, in un senso molto umano, molto fiorentino, anche il lato più materiale, è vero e non solo in Giotto, basta pensare a Dante, però il lato della provocazione non è quello che mi interessa. D'accordo, questo fa parte della contingenza, si trova nella vita della gente, ma è ciò che è al di là di questa vita e del suo tempo che rende oggi ancora vivi Giotto e Dante, non l'attualità del loro tempo. Ma siccome oggi l'aspetto della provocazione assurge quasi quasi all'arte di cui più si parla, considerata arte appunto in quanto provocatoria ... quello che mi interessa nell'opera è la sua verità, la sua autenticità, la provocazione lasciamola da parte ...

Andrea D.

parlavo solo di una minima parte dell'opera di un Giotto, che indulge alla provocazione. La storia dell'arte moderna nasce con l'impressionismo, cioè con la sottolineatura, o con  la cancellatura che fa Matisse La trasgressione è un elemento altrettanto importante, un elemento interno al sistema dell'arte ...

Vittorio M.

Si, ma un conto è l'opera che, per una sua profonda necessità, fa un gesto trasgressivo, fa parte della sua verità, può essere percepito dagli altri come una provocazione anche se, nell'animo dell'artista, non lo è. Nel momento però in cui attiri un'attenzione particolare su questo sberleffo nell'affresco di Giotto, come esempio di contemporaneità, mi viene in mente la forma di trasgressione e di provocazione contemporanea e ci tengo a marcare le distanze, è un fatto marginale legato al suo tempo, alla cronaca.

Patrizia Sophie G.

Mi rendo conto che nell'arte, più parliamo e più ci attorcigliamo ... contemporaneità non significa nulla, ci sono delle cose che esistono sempre e comunque in qualunque epoca. Perché non parliamo invece di arte universale, come quella che chiunque, in qualunque momento, sente, dal bambino all'adulto a te, quando si trova di fronte a qualcosa e dice: ecco, io lo sento ... come si può definire l'arte se non qualcosa che, in qualunque epoca, è come la vita, c'è tutto, ma non è questione di contemporaneità ... è qualcosa di assolutamente universale. Quando si dice “questo significa, quest'altro significa”, non so ma mi sembra che ne parliamo troppo e sentiamo meno se parliamo troppo, perché vivere..l'opera d'arte è veramente quel qualche cosa davanti alla quale tu percepisci te stesso, la tua interiorità e te ne senti addirittura l'operaio, l'artista, come quando leggi un libro e dici: questo sono io, l'ho scritto io, è la stessa cosa. Ecco cos'è l'opera d'arte, qualcosa che ci racconta ciò che tutti abbiamo dentro e ce la fa sentire. Al di là di questo, parlare di contemporaneità non ha alcun senso

Vittorio M.

sono molto d'accordo

Patrizia G.

Si, in ogni cosa c'è una verità, però credo che quello che diceva prima Andrea è proprio il senso della relazione. Io credo che, nel momento in cui io sono in relazione con quella cosa, è così come io sono che posso scoprirla. Universale si ma sempre universale in relazione con me, non col tutto. Su quello che è stato detto, a me sono venute in mente tre cose: relazione, premonizione ed essere degno. Pollok che ha messo la sua tela sul soffitto e che abbiamo tradotto come vetrata, ... cioè noi traduciamo dopo qualche cosa che sta avvenendo e che nemmeno l'artista è in grado di concepire. L'altra cosa è la relazione, il mettere qualcosa in uno spazio, in cui esso assume una valenza completamente diversa, nel momento in cui io entro dentro e lo posso guardare. Poi hai citato Luzi e io potrei aggiungere Viviani che parlava di.”essere degni” di quello che ci sta succedendo, di quello che andiamo a guardare. La fisica quantistica dice che la realtà esiste solo quando io entro in essa, la coscienza entra in relazione con la cosa ... mi sembra questo il senso di quanto dicevi

Andrea D.

Essere degno è un concetto che non mi interessa ... essere degno è non prendere rischi, io invece preferisco giocarmi tutto grazie alla relazione con le opere degli artisti. Universale ... è qualcosa che collettivizza tutto, una marmellata ... la prendo un po' con durezza perché qui ... tutto è buono, tutto è arte ... Il mio mestiere è di fare il chirurgo e dire “si fa così”, non sarebbe degno del mio mestiere dire altrimenti. Chi si rivolge a me per sapere se quell'opera è contemporanea, il che non vuol dire che sia bella o brutta, che piaccia o meno, io do  la mia risposta.
Mi ricordo di un incontro del Rotary in cui c'era anche una mostra di giovani, e a cui gli invitati mostravano di interessarsi ma solo a parole, senza comprare nulla, almeno per aiutare dei giovani che affrontano dei grandi sacrifici perché credono nell'arte. C'è stato solo uno che ha messo sul tavolo 300.000 lire per comprare un'opera, uno solo ... questo sì che è contemporaneo e non universale ... non bisogna confondere, sennò tutto è marmellata, anche l'essere degno. Mi interessa di più la dignità appunto, di chi crede nel proprio lavoro.


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