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C.1.2.13

Arte e Psiche
Incontro fra Arte e Psicologia

La VICENDA DELL'ANIMA
in dialogo con Vittorio Mazzucconi
e la sua pittura

Incontro n° 16 del 21 ottobre 2009


Indice ARTE E PSICHE

 

Nel dibattito sono intervenuti anche: Aviva Setton, Roberto Provenzano, Pat Sophie Graja, Gerardo Palmieri.

Vittorio Mazzucconi
Prima di dare la parola al Dott. Caddeo, volevo informarlo sul senso del nostro seminario, che chiamiamo "Arte e Psiche". E' un discorso sull'anima umana, che è collegato all'arte e in particolare alla mia pittura, perché questa ricerca, invece di farla solo con delle parole e dei testi, in modo prevalentemente filosofico e psicanalitico, cerchiamo di compierla e approfondirla attraverso una lettura delle immagini. A me è accaduto di dedicare trent'anni a una pittura che, per qualche strano motivo, non è assolutamente figlia della cultura artistica corrente e tanto meno di posizioni ideologiche o della ricerca di un successo e di un mercato, ma è stata una registrazione fedele, in presa diretta, dei movimenti della mia che sono però movimenti comuni ad ogni essere umano. Personalmente, li ho vissuti nel corso e con la spinta dell'eros. Mentre la ragione si è espressa completamente in quello che ho potuto fare nell'architettura, nella pittura la parte più emotiva e profonda di me si è rivelata proprio quando ho incontrato l'eros e mi ha permesso di percorrere il cammino lungo e doloroso che ci porterà forse alla consapevolezza. La lettura di questo percorso è stata articolata in tre fasi, corrispondenti a tre tipi di figure femminili, in cui si potrebbero riconoscere delle persone reali, ma diciamo che questo è un aspetto autobiografico a cui non do alcuna importanza.
La prima figura che ho incontrato è Euridice, una seconda che incontreremo a partire dal prossimo Mercoledì è Proserpina, e infine arriveremo a Psiche. Qual'è il senso che abbiamo voluto dare a questo cammino? Euridice è l'anima di cui Orfeo va alla ricerca e che egli perde, nel momento in cui si volta indietro a guardarla, una perdita di cui cercheremo di comprendere e interpretare il senso. Nella pittura essa si configura come quella Discesa agli Inferi che si richiedeva a tanti antichi eroi di compiere, al fine di conseguire la saggezza. A questa esperienza è seguito un periodo a cui vi ho accennato, quasi lunare, in cui si è persa l'energia dell'eros e c'è stata invece una elaborazione della sua perdita, con una sublimazione dell'eros in un senso più spirituale. L'esperienza successiva di Proserpina, che faremo, mette in luce una certa visione che mi fa sempre porre in parallelo il rapporto fra uomo e donna con il rapporto fra corpo e anima, in cui la perdita della donna amata è in qualche modo assimilata al distacco dell'anima dal corpo. E' una perdita ma non totale come quella di Euridice, riassorbita dal nulla perché l'uomo si è voltato indietro, dimenticando forse i suoi ideali, lo scopo della sua vita. Diciamo che Proserpina ci presenta invece un'altra visione. Proserpina che, per metà del tempo, è nell'estate, nella terra e che per l'altra metà è invece negli Inferi, mostra proprio i due aspetti della vita dell'anima, non dico una loro coabitazione ma, diciamo, la percezione della dualità in tutto questo, la dualità fra corpo e anima, fra luce e tenebra. Non più quindi solo un discorso sull'ombra come potevo farlo con Euridice ma quello su un 'ombra che si alterna alla luce.
La terza fase, dedicata invece a Psiche, in cui si vede che Psiche, dopo il suo felice e poi infelice amore con Eros, viene finalmente assunta fra gli Dei, ci mostra infine il vero significato della vicenda dell'anima umana, l'anima che riconosce il divino in sé. Questa storia molto bella e complessa abbiamo cercato di portarla avanti ed esprimerla attraverso l'arte e la sua interpretazione. A questo punto, lascio però a te la parola, sicuro che certamente saprai nuotare nel mare magnum in cui ci siamo avventurati. Io non voglio prendere altro tempo perché siamo già in ritardo.

Alberto Ugo Caddeo
Mi ha colpito quello che Vittorio ha detto su questi tre gradi dell'anima, Euridice, Proserpina e Psiche, E' interessante Orfeo che si volge e la perde, quest'anima che si dilegua nel vuoto, ma vediamo un po' questo vuoto cosa può essere: è qualcosa che sicuramente prelude al secondo livello di stato di coscienza, che è quello "proserpinico", si potrebbe dire, in cui c'è questo incontro-scontro fra l'ombra e la luce, un tema tanto caro alla ricerca mia personale e che si riflette naturalmente nella mia scuola, l'Istituto che dirigo. Quello di Euridice è un tema di provocazione per l'essere umano. Io mi dileguo nel momento in cui mi rivolgo ai miei attaccamenti, agli attaccamenti dell'Io, che è quindi un aspetto nostro, contingente, storico, importantissimo, ma è anche un aspetto di "negoziazione" nel senso che l'Io è il referente, nella realtà concreta, dell'anima che invece rappresentiamo in Psiche. L'Io, il Signor Rossi che è nato il tal giorno, che ha avuto un vissuto particolare, attraverso tutte le dinamiche che formano la storia di tutti noi, è quell'Io che rispecchia continuamente il qui e ora consecutivo, si riflette in ogni istante della nostra vita, con la coscienza di un continuo, di un presente unico. Questo Io, questa struttura, che nel mito di Euridice può essere rappresentata da Orfeo, è la controparte, la riflessione di Euridice, dell'anima, nel senso che l'Io è l'aspetto concreto, esperienziale, che fa esperienza di tutto quello di cui l'anima, il Sé ha bisogno. Ha bisogno per che cosa? Per ri-velarsi, auto-svelarsi: rivelarsi nuovamente significa un ritorno a uno svelamento, ogni volta che mi risveglio mi ritrovo in uno stato di coscienza più alto, superiore a quello precedente. E' come dire che il simbolo della vita non è un cerchio ma una spirale.

Vittorio M.
Questo lo condivido davvero. L'abbiamo detto molte volte in questo Seminario.

Alberto Ugo C.
Nel momento in cui sembra che il cerchio si chiuda, lo stato di coscienza dato dall'esperienza dell'Io ci porta in realtà a un'apertura ulteriore, a una proposta di noi stessi come coscienza dell'anima. Siamo così pronti a una nuova esperienza, apparentemente uguale alle precedenti ma in verità differente, perché lo stato di coscienza si è ampliato: è appunto il concetto di una spirale e mai di una chiusura del cerchio. Un mito importantissimo di cui io sono particolarmente innamorato, per indicare questa rottura del cerchio, importante al livello della storia dell'essere umano, è il mito di Ulisse. Sembra che descriva un cerchio nel suo viaggio nell' ignoto, questo essere umano totalmente assillato, quasi in modo maniacale, dal desiderio di uscire. Uscire da dove? Da Itaca, che rappresenta il regno massimo dell'Io. Egli è infatti un re, considerato giusto, amato dai suoi sudditi, saggio, e vive in un'isola, quindi al di fuori di guerre o altri tormenti. Si trova in un'isola felice, nel vero senso della parola. Ma lui non è felice, vuole andare oltre, deve sfidare se stesso, e qui secondo me è stupendo il rapporto dell'eros, nel vero senso della parola, con Penelope. Essa viene vista come una povera femminuccia, asservita alle paturnie del marito, in un'attesa bianca, per dieci anni, del ritorno del suo uomo, che sembra che non ritorni mai, ma la speranza è l'ultima a morire.... Non è proprio così: se guardiamo bene c'è un ponte meraviglioso, lo diremmo oggi telepatico ma io direi piuttosto "vibrazionale", fra Ulisse, che rappresenta l'archetipo maschile nel vero senso della parola, l'attivismo, l'andare oltre, oltre se stessi, e questo meraviglioso archetipo femminile, rappresentato da Penelope. Una parte, che si potrebbe chiamare il signore dello spazio, è Ulisse, non il dominatore dei mari, non certo un grande conquistatore, un condottiero, ma colui che è ricco grazie all'esperienza di questo viaggio. E' un aspetto maschile che abbiamo tutti: quando si parla di aspetto maschile o femminile non si intende l'appartenenza biologica a un sesso o all'altro, tutti abbiamo il nostro aspetto maschile e il nostro aspetto femminile, il difficile è integrarli uno all'altro. Questo mito ci porta a vedere un archetipo maschile perfetto in questa insofferenza di stare nell' idios, nel piccolo orticello, Ulisse non è certo un idiota (non uso questa parola in un senso offensivo ma in quello etimologico del termine), non gli interessano le cose proprie, vuole andare oltre, nella conoscenza totale. Parliamo di Penelope: come Ulisse è il signore dello spazio, così Penelope è il signore del tempo.
Il canovaccio di tessuto che lei crea e, con grande abilità, de-crea, guarda caso lo distrugge durante la notte e lo ricrea durante il giorno. Questa capacità di dominare il tempo al fine di prendere in giro i Proci, questa furbizia intelligente con cui lei riesce a fissare il tempo e nello stesso tempo allungarlo, sembra una contraddizione a livello razionale, ma Penelope ce la fa benissimo, la tela è sempre nel suo farsi, come il viaggio di Ulisse, che è come fosse in un qui ed ora, in un eterno presente, come una riflessione dell'eterno presente, una riflessione di noi stessi. Penelope non è Euridice, va oltre, rappresenta l'anima, come Isha, l'Eva del paradiso terrestre. Pensiamo a Eva e a Adamo, pensiamo a Iside e Osiride, a Penelope e Ulisse, sono metafore di un unico essere. Come dicevo prima, non c'entra ,l'appartenenza biologica, tutti abbiamo un aspetto Eva, un aspetto Adam, l'importante è integrarli fra di loro. Quindi abbiamo questa dinamica nel tempo, la tela si disfa e si rifà con un ritmo quotidiano, e Ulisse fa lo stesso con il suo viaggio, le sue avventure, simbolo di esperienza, che sono una dinamica, un movimento. Abbiamo questa coppia di innamorati, Ulisse e Penelope, che camminano, una con la tela e l'altro con lo spazio della propria nave. Per prima cosa Ulisse si scopre ottimo marinaio, lui che era un pastore, si scopre in un altro ruolo, un'altra funzione archetipale. La voglia di trasformazione, la voglia di lasciare Itaca, che rappresenta il suo Io. Itaca rappresenta gli appetiti che l'Io in qualche modo può addormentare nel corso della vita umana, mentre lui invece si libera di essi, riesce a non addormentarsi, a non arrendersi al piacere della sua piccola isola, va oltre le proprie cose e si slancia nello sconosciuto. Va nel vuoto, e qui si apre un tema importante. Proserpina e Psiche verranno dopo ma qui, in questo primo aspetto, mi accentrerò di più sulla metafora di Euridice. Nel momento in cui io sento la sparizione dell'anima nel voltarsi indietro, assimilo tale mancanza alla morte, a un vuoto. Gli orientali parlerebbero piuttosto di una vacuità, e qui sta il gioco: la vacuità non è il nulla, ma è la provocazione al recupero di Euridice, al recupero dell'anima; ci deve essere un vuoto in una tazza, per riempirla di tè, ci vuole un vuoto nell'utero femminile perché si crei una vita. Se non c'è vuoto non c'è sviluppo, non c'è evoluzione, non c'è un'ulteriore stato di coscienza. Ecco allora che Orfeo si volta dietro, guarda in qualche modo al suo passato e quindi ritorna ai suoi appetiti, agli attaccamenti egoici dell'Io, perde momentaneamente la sua anima, trova un buio che vive come un nulla ma a poco a poco percepisce che questo non è il nulla ma è una proposta. Ecco allora che la morte, che è questo vuoto, può essere assimilata a Tanatos, il cui rapporto con Eros è ben conosciuto, ma c'è un piccolo particolare: Tanatos, che è una parola greca, deriva da una parola Tanh (?) che significa la proposta, l'occasione, l'opportunità. La morte c'è se io non colgo l'occasione, se io non accetto umilmente il vuoto, la mancanza, l'assenza, ma noi sappiamo che non c'è cultura, nel senso più lato del termine, se non c'è questo bisogno di recuperare l'essenza. Se io non sento di dover recuperare questa essenza, se io mi sento pieno, da dove nasce, dove può esserci una cultura? Io sono accerchiato dai confini del mio Io, sono ancora una volta un "idiota", cioè mi accontento, mi auto-realizzo, credo di auto-realizzarmi, tramite i valori dell'Io, senza pensare che i valori dell'Io sono l'esperienza. Se io vedo che il mio Io si allinea, si costruisce, si matura grazie all'esperienza, si centra, si auto-centra attraverso di essa, vuol dire che ogni esperienza travalica se stessa, quindi ha un senso che va al di là della percezione che l'essere ha di se stesso.

Dovremo qui discriminare due parole che nel linguaggio comune usiamo come sinonimi ma che non lo sono: il significato e il senso. Di ogni esperienza possiamo darci un significato razionale, su cui convenire oggettivamente, ma il senso che le attribuiamo è un'altra cosa. Ogni esperienza ha un senso che travalica l'esperienza stessa, in una concatenazione che ci porta ad avere una coscienza superiore all'episodio contingente e quindi superiore a noi stessi. E' quello che semplicemente si può chiamare il transfert personale. Allora Tanatos, Tanh, mi dà un'opportunità che nasce dall'esperienza e che rimarrebbe morta, nel nulla, se io non riuscissi a trascendere l'esperienza stessa, a farmene ricco perché le do un senso. Se non faccio questo è un po' come girare su se stessi, come fa un arrosto., ma io mi brucio, mi autodistruggo. Quindi, se non riesco ad entrare nel senso di un'esperienza, ho perso un'occasione. Ecco che allora sono nel nulla e quindi nella vera morte, e non è una morte come recupero di un'assenza e ricerca di una presenza. Orfeo che si volta indietro e che non vede più Euridice, ha subito la percezione di un'assenza, disperata, senza ritorno, ma che è anche lo stimolo per ritrovarla, Ulisse ritrova la sua Itaca, in uno stato di coscienza totalmente differente: ritorna da straccione, mendicante, talmente straccione che nessuno lo riconosce, solamente il suo cane fedele, Argo, il cane che è simbolo di fedeltà e quindi di coerenza. Ulisse è stato coerente con se stesso, il cane rappresenta la coerenza di Ulisse, ecco che quindi Ulisse è riconosciuto solo nella sua coerenza, nella sua perseveranza, nella sua eroicità, e ritorna da impotente, spogliato di ogni orpello, simbolo di un recupero della sua essenza. Ma è per questo che è il più presente di tutti: ha recuperato la sua assenza, e questo vuol dire appunto avere una presenza. Guarda caso, uno degli episodi finali dell'Odissea è quando tutti lo riconoscono nel momento in cui egli centra l'obiettivo con il suo arco, un arco talmente duro che solo lui aveva la forza di fare scoccare la freccia, non solo, ma anche di far centro, simbolo di una centratura dell'essere umano. La morte non è nulla per lui perché, nella sua assenza da Itaca, ha già vissuto la morte dell'Io, ha fatto l'esperienza di tutte le sue potenzialità, degli archetipi, delle funzioni, di se stesso, ha scoperto le sue possibilità, ha fatto Tanatos, andando oltre all'occasione, ha accettato la sfida dell'occasione per andare oltre l'esperienza stessa.

Ecco che allora Orfeo è un po' un Ulisse in nuce, e Euridice è questa Penelope ritrovata nel ritorno a Itaca, una Penelope vergine, nel senso di essere fedele, che ha resistito ai Proci che la desideravano, la volevano, sia perché era una bella donna ma anche perché era il simbolo del potere. Questi Proci agognano all'anima, rappresentata da Penelope, ma non hanno capito nulla di cos'è l'anima. C'è un bel racconto orientale di un saggio che sale la montagna sacra e, salendo attraverso tutte le prove iniziatiche, pensa che, in cima alla montagna sacra, troverà la verità, il potere assoluto, la ricchezza. Arriva in cima alla montagna, tutto felice, e trova in essa un libro. Comincia ad essere un po' in tensione...è solo un libro...forse non è un libro, è una scrigno, un tesoro. Aprendolo, vede uno specchio, che lo rispecchia. Si lascia andare all'ira, prende il libro, lo scaraventa per terra e lo specchio va in mille pezzi. Un altro saggio fa lo stesso percorso, sale la montagna sacra, superando tutte le tappe iniziali, arriva in cima, pensando anche lui che troverà la verità, la ricchezza, il potere, apre il libro, anche lui vede che c'è uno specchio, si rispecchia in esso, chiude serenamente il libro, scende dalla montagna e ritorna a fare quello che ha sempre fatto: il fabbro ferraio nel suo villaggio. Dopo dieci anni, quel villaggio è diventato la capitale dell'impero. Cosa significa questo? Che tutti siamo in cammino, tutti percepiamo un'assenza, una morte, una mancanza di qualcosa, una mutilazione. Si dice che la felicità non è di questo mondo, perché siamo continuamente in un percorso, che ricerchiamo qualcosa che, una volta trovata, ci fa ricercare un' ulteriore cosa. Nel momento però in cui io ho fatto esperienza di tutte le mie tappe iniziatiche, nel momento che ne ho trovato il senso, la concatenazione e quindi sono andato oltre il significato limitante dell'esperienza stessa ma ho capito che ogni esperienza mi ha portato a uno stato di coscienza superiore, quando poi arrivo alla tappa massima, alla cima, io mi riconosco aprendo il libro e guardandomi nello specchio. Mi riconosco e mi rifletto e quindi prendo coscienza di tutto me stesso, ossia prendo coscienza di tutto l'universo. Questo è il mio potere, questa la mia ricchezza, questo è ciò che trasformerà me e chi è intorno a me. E qui entriamo in un tema importante, che è quello dell'irraggiamento, della radianza, quando si parla di un maestro illuminato, egli non lo è 24 ore su 24, o 365 giorni all'anno fino alla sua morte. Chi è illuminato ha avuto un'esperienza talmente profonda che può avvenire in una frazione di secondo, e quell'esperienza l'ha stravolto. Ne nasce una radianza, un carisma, che trasmette il suo silenzio, la sua vacuità a tutte le persone che lo incontrano, che lo riconoscono, ma non è che sia un illuminato, non è Dio ma un aspetto di Dio e quindi quell'esperienza della totalità del divino che ha fatto in un attimo l'ha incisa dentro di se per tutto il resto della sua esistenza, e lui trasmette solo questo, perché è andato oltre, nel senso dell'esperienza, ma senza collegarla al suo Io e ipertrofizzarlo. Non è il suo Io che si è arricchito dell'aspetto divino ma è la sua Isha, la sua anima.

Una cosa che ho appreso da pochissimo tempo da una persona molto alta a livello spirituale è la differenza fra il segno della croce che facciamo noi cattolici e protestanti e quella invece degli ortodossi. E' difficile parlarne a fondo in questa sede ma essa fa riconoscere la nostra vera natura, distinguendo un Dio oggettivo che è al di sopra di me da un Dio soggettivo che è dentro di me, per giungere infine a una congiunzione dei due aspetti di Dio. La superbia, la tracotanza dell'Io, la sua cecità che guarda al passato, mi portano a non riconoscere il mio Sé. E' un fatto che, se siamo delle personalità bene integrate, bene allineate, che hanno avuto dei successi nella vita, in qualsiasi campo, e quindi abbiamo saturato la nostra assertività, siamo meno portati a tale riconoscimento. Sarebbe d'altra parte prematuro parlarne a un diciottenne, a un ventenne, che devono vivere l'assertività del loro Io, devono conquistare delle cose con esso. E' dopo che, saturate certe assertività, posso integrare il mio Io con il richiamo dell'anima che bussa, la chiamata dell'anima.
La notte dell'anima è una grande lotta, pensiamo a quella stupenda pagina di Manzoni nei Promessi Sposi, in cui parla dell'Innominato. Guarda caso, si chiama proprio così, perché i meandri più profondi della nostra anima non possono avere nome: sono cose talmente profonde dentro di noi che ogni anima ha un'esperienza di sé, una definizione di sé che è incomunicabile a se stessa, nel senso che la razionalità non ci può arrivare. E' un sentire dentro che non può essere comunicato. Non è comunicabile nemmeno a me stesso l'esperienza profonda della mia anima, io la sento ma non posso concepirla in un'altra maniera. Ma perché non posso concepirla? E' perché trascendo continuamente l'esperienza stessa di questa notte dell'anima.
In una persona che ha avuto o ha delle difficoltà ad avere delle soddisfazioni l'Io può essere meno centrato, è più debole. La personalità più debole è più disponibile a percepire una trascendenza, ascolta di più. Mentre sarà meno disponibile un Io integrato, un Io che può essere addirittura tronfio in certi momenti dei risultati raggiunti nella sua storicità, un Io che fatica a pensare che esiste una forza superiore a lui che lo comanda. E' la forza dirompente ma nello stesso tempo discreta dell'anima, questa forza che si fa innamorare di se stessa, distruggendo tutti gli schemi, tutte le strutture che l'Io si era costruito.

Per ritornare al tema di Eros, il vero Eros è l'esperienza dell'anima. Noi siamo occidentali e la viviamo anche nella tradizione cavalleresca. In essa questo aspetto maschile del guerriero a cavallo, dopo la tradizione pagana, celtica, in cui ci sono i fondamenti della cavalleria, con l'avvento del cristianesimo diventa il guerriero di Dio, l'uomo spirituale per eccellenza, diventa la rappresentazione del Cristo, l'uomo nuovo che porta la buona novella, il simbolo del guerriero a cavallo, colui che sa dominare i suoi istinti, non nel senso di reprimerli ma in quello di sposarsi con essi. C'è un elemento ulteriore oltre al cavallo e alla sua spada, spada come la forza che discrimina, che rappresenta l'intelligenza del cuore, che può punire, può offendere ma, nello stesso tempo, è un arnese alchemico, che dissolve, ferisce. Ma il. sangue della ferita si coagula. Questo è il vero simbolo della spada: un'arma costruita per il combattimento fra uomo e uomo, tutte le altre armi derivano dall'ascia. La spada è fatta per mettersi prima in contatto con l'aldilà, il Dio in cui credi, che tu sia un guerriero mussulmano o un crociato, il Dio in cui credi si comunica attraverso questa spada, questa antenna fra la propria anima e la divinità. Dopo di che c'è la orizzontalità della spada, il ringraziamento verso l'avversario prima del combattimento, perché lui è Tanatos, visto come occasione di reintegrare tante esperienze della paura, della ferita, della morte stessa nel combattimento; è l'occasione per recuperare una parte di se stesso che non era stata ancora trovata. Questo è il simbolo del duello, che può essere fatto solo fra due persone, il resto è un combattimento. Due reparti che si scontrano è un combattimento, non un duello, Il duello è fare luce in me, ciascuno fa luce in se stesso, attraverso la paura, che è già una morte, un'assenza, attraverso la ferita. La spada è un'arma da usare non di punta ma di taglio, perché lo scopo è di mettere fuori combattimento, non di uccidere. Il togliere all'altro l'esperienza del suo ruolo di essere un cavaliere è peggio della morte. Il cavaliere, se uccide di punta è perché ha la volontà di uccidere, può capitare incidentalmente che ferisce un cavaliere che cade dal cavallo e muore ma è indiretta la morte, non è voluta dall'altro. Se io combatto di punta, vuol dire che io voglio la sua morte. La spada serve solo per far prendere coscienza dell'assenza del suo cavalierato, momentanea, ma che gli fa recuperare un aspetto non integrato della sua anima.
Parlavo di un terzo elemento, oltre alla spada e al cavallo, e questo elemento è la dama, che spesso e volentieri non era incarnata in una donna fisica e non era neanche la compagna, l'innamorata del cavaliere, spesso era una donna che poteva essere anche molto anziana, che rappresentava la nobiltà, attraverso il femminile, la Isha. Quindi questa dama era l'anima, che non sarà mai raggiunta, una signora nobile, anziana, a cui pensare liberi da ogni velleità sessuale ma con un altro tipo di eros. Essa era il riferimento al mio aspetto creativo, al mio aspetto femminile, del mio aspetto anima in cui il maschile rappresenta l'Io integrato, l'Io guerriero, la volontà, l'aspetto padre nella trinità cristiana, l'aspetto padre del Fiat lux: voglio la luce e la luce sarà. Il cavaliere, il guerriero vuole la vittoria per un obiettivo ben preciso e vittoria sarà, il cavaliere è sicuro di vincere perché il principio per cui combatte è un principio universale, è un principio trans-personale che va oltre gli appetiti del suo Io che si può sacrificare tranquillamente, il vero guerriero non combatte per la sua ricchezza, il suo potere, ma combatte per una legge universale. Se combatto per una legge universale, trans-personale, io io ho già la vittoria in mano. Se io combatto per questa legge sono l'aspetto padre, ma la volontà di questo aspetto padre deve essere corroborata dall'aspetto cristico. E' importante che, nella tradizione esoterica, l'aspetto cristico sia l'aspetto femminile. Il figlio è la parte femminile di Dio, la parte creatrice di Dio. Il Fiat lux del padre, l'aspetto maschile, è dettato dall'esigenza di amore che l'aspetto padre ha ma che è stato mosso e provocato dall'aspetto femminile. ed è quindi questo aspetto che suscitato la vita ed ha creato l'universo. E' l'aspetto amore, l'aspetto eros, che è quindi la manifestazione di questo universo, la riflessione di tutta la volontà divina, di tutto l'aspetto divino integrato nel suo maschile e nel suo femminile. Questo aspetto si riflette nelle forme contingenti e noi facciamo esperienza di esse, e recuperiamo il famoso mito della casa del padre, recuperiamo la coscienza di noi stessi, il ritorno al padre tramite questa esperienza, ci rispecchiamo in noi stessi, riconosciamo le nostre forme attraverso questa riflessione, come rappresentazione della divinità, quella divinità che è dentro di noi. Allora Euridice rappresenta questa occasione di tanatos, di eros, l'occasione che crea eros se io riesco ad andare al di la del mio Io, se riesco a perdermi. Se noi pensiamo al rapporto sessuale, il vero orgasmo avviene quando non ci identifichiamo più con noi stessi, ma siamo un'unica cosa con il partner con cui stiamo facendo l'amore, quindi un momento di dispersione dell'Io, esattamente l'opposto del mito di Orfeo. C'è un'anima che trascende la mia anima, non solo l'Io, perché le due anime che si incontrano diventano un'unica cosa....

Vittorio M.
Noi volevamo bere un bicchiere per dissetarci, dissetare la nostra sete di conoscenza, ma tu sei un fiume, siamo sommersi da questo fiume, non riusciamo neanche a deglutire...vorremmo in qualche modo partecipare, se accetti di avere un dialogo con noi. Devo dire che io, personalmente, non sono portato a controbattere alcunché, amo ascoltare in silenzio, e sto bevendo all'acqua del tuo fiume. Mi ha però colpito il fatto che, nello schema del nostro Seminario che ti abbiamo presentato, con i diversi stati dell'anima che esso esplora e che abbiamo chiamato Euridice, Proserpina, Psiche, non abbiamo mai evocato l'elemento maschile che conosce questi stati, che li sperimenta. Tu hai invece introdotto questo personaggio di Ulisse che, fra l'altro, è uno dei più famosi conoscitori dei diversi aspetti del femminile, Calipso, Circe, Nausicaa, Penelope..., ed hai quindi portato questo elemento nuovo nel nostro contesto, che era piuttosto simile a un gineceo. Forse, inconsciamente, consideravo me stesso come un Ulisse, in questo viaggio nella mia anima, vista attraverso le presenze femminili in cui essa si è proiettata. Vedevo poi il vero protagonista, al di là dell'Io che ha sperimentato tutto questo, nel Sé interiore, che ci accingevamo a scoprire alla fine del processo, dopo aver constatato quanto le varie seduzioni e esperienze dell'eros siano certo vitali, ma anche illusorie e temporanee.
Con la tua lettura di Ulisse, hai detto delle cose splendide ma anche alcune che mi riesce difficile condividere. Mi sembra che Ulisse sia proprio una personificazione dell'Io, non di un trascendere l'Io, come tu dici. In lui c'era una volontà di conquista, di ruberia, di inganno, alleata alla sete di avventure sempre nuove, si è accostato anche a moltissime forme del femminile ma non so quanto ne abbia captato il senso, al di là del gusto dell'avventura. Mi sembra che Ulisse sia piuttosto l'esempio di quella parte dell'umanità che vuole sempre spostare in avanti il limite della sua affermazione, un Ulisse contemporaneo creerebbe una rete internazionale di affari, volerebbe in aereo da una parte all'altra del mondo...ma questa non mi sembra, né ai tempi di Ulisse né oggi, la strada del conoscere se stesso e del trovare il divino in noi. Mi domando come Ulisse abbia trovato il divino in sé, trascendendosi, come tu dici. Dante ha interpretato in modo più realistico la possibile fine di questa parabola con l'inabissamento di Ulisse e dei suoi compagni nell'oceano. Omero non aveva immaginato che Ulisse, stanco del suo riposo a Itaca, avrebbe messo insieme degli amici convincendoli a rimettersi in mare per andare di nuovo alla ricerca di avventure, fino alle colonne d'Ercole e oltre, e che lì si sarebbe finalmente inabissato. Questa mi sembra proprio la tragedia dell'Io, ma non il cammino dell'uomo che giunge alla saggezza, e neppure l'immagine del cavaliere medioevale che combatte per un amore ideale, e tanto meno il Cristo. Non vedo proprio cosa hanno in comune questi personaggi..

Alberto Ugo C.
L'Ulisse del racconto molto laico, neppure pagano, dell'Odissea, si presenta con l'aspetto esteriore che vedi tu e che condivido se mi limito a una lettura letterale. Ma la divinità che trova Ulisse è nel momento in cui spezza il cerchio in una spirale. Lui ritorna, ma non è la chiusura di un ciclo, è il primo mito occidentale in cui c'è la rottura del fato, quella forza più forte degli stessi Dei che devono quindi anch'essi soggiacervi. Rompendo questo aspetto, è come se avesse trasceso. Avendo trasceso il suo Io, riconosce la divinità che è in se stesso. E quindi in qualche modo ha liberato gli Dei, ha liberato Dio da una proiezione semplicemente umana. Questo fatto è una proiezione dello scacco esistenziale in cui l'uomo si trovava, un uomo che è pre-cristiano, che non riesce assolutamente a vedere la trascendenza. Lui riesce a trascendere se stesso e, così facendo, riesce a vedere la sua spalla destra, si potrebbe dire, come nel segno della croce all'ortodossa. L'Io oggettivo che ha dentro di se, non è esplicitato a livello letterario, ma di fatto il percorso di Ulisse è proprio questo. Egli ritorna spoglio, povero, straccione...

Vittorio M.
Si, ma è un'astuzia, anche se tu dirai che essa fa solo parte della lettera del poema mentre la sua interpretazione ...ma devo prima chiedere se c'è qualcun altro che ha qualcosa da dire?